Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 2 Numero 13 Del 6 - 4 - 2009 |
«Questa città ama i suoi figli bastardi e li difende» |
Una conversazione con Alessandra Ferraro di Margine Operativo |
Mariateresa Surianello |
Nato nel 1994 «all’interno e dall’interno» dell’esperienza del centro sociale Forte Prenestino, Margine Operativo è una delle realtà teatrali romane che negli ultimi anni ha maggiormente contribuito alla costruzione di scambi tra luoghi e persone riconducibili alla vasta area della cultura indipendente della Capitale. Una tendenza a mettersi in connessione e sperimentare relazioni multidisciplinari che emerge fin dalla sua nascita come gruppo di autoprovocazione, attraversato dall’etica punk del do it yourself (fallo da solo). Dal nucleo di partenza, formato da quattro persone tutte attiviste del Forte Prenestino, si genera poco dopo Riot Generation Video, il progetto visuale che vivifica la volontà del gruppo di intrecciare codici diversi e abbattere i confini tra le forme artistiche. Dopo otto anni di militanza nel centro sociale di via Federico Delpino, a Centocelle, il gruppo lascia la sala che aveva allestito e si dà al nomadismo, intraprendendo una diversa progettualità. Una nuova fase scaturita anche attraverso i tragici fatti del G8 di Genova. «Dopo Genova niente è stato uguale» - ripete Alessandra Ferraro, anima, insieme a Pako Graziani, di Margine Operativo. Proprio Ferraro abbiamo incontrato in questi giorni di grande inquietudine per la cultura romana, stretta nella morsa dei tagli governativi e obbligata a rispondere ai cervellotici bandi comunali in scadenza. Il vostro nome è una dichiarazione di appartenenza, collocate le vostre azioni in uno spazio concettuale, che poi è anche fisico, come siete arrivati a questa sintesi? E’ sicuramente una dichiarazione di intenti, non è un nome casuale. Margine come posizionamento, come l’orlo estremo di una superficie che è uno spazio bianco dove vai ad agire. E’ una predisposizione all’azione, un collocarsi ai confini tra i diversi territori artistici. Quello di intrecciare e meticciare diversi codici artistici è un elemento della nostra storia. Margine è anche una dimensione di posizionamento spaziale che racconta la fisicità degli spazi. Anche questa per noi non è casuale. Nel festival Attraversamenti Multipli andiamo ad inserire gli artisti negli spazi urbani, gli atti, le loro azioni artistiche non sono casuali. Nel nostro nome c’è anche un’indicazione di percorso artistico. La vostra ricerca artistica è radicata nell’ambiente città (sulla Terra, per la prima volta lo scorso anno, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne), territorio di incontro per eccellenza, quindi eterogeneo, ibrido, da cui scaturiscono divisioni e conflitti sociali. Sono questi i temi su cui lavorate? La città, lo spazio urbano, la metropoli per noi è anche uno spazio del simbolico. La metropoli è un luogo di stratificazione di storie, dove si intrecciano culture, lingue, lotte, prospettive diverse. Questo ci appassiona profondamente. Ci stimola tantissimo la città come luogo che racconta il nostro tempo, una dimensione del nostro presente. Che è poi quella che viviamo. La metropoli è stato uno degli elementi su cui abbiamo molto lavorato artisticamente, non solo attraverso gli spettacoli. Il vostro ultimo lavoro, Città spettacolo per corpi randagi, celebra lo specifico antropologico metropolitano, attraverso un flusso di parole e musica. Quest’ultima è stata sempre un elemento fondante dei vostri spettacoli, ora però siete proprio giunti alla forma del concerto, con due musicisti e un rapper in scena. Ci racconti questo passaggio verso la musica? Avevamo indagato la città anche negli spettacoli precedenti, sotto prospettive e sperimentazioni artistiche diverse. La trilogia “Metropoli” (Atto d’amore n. 3 è del 2004) è un inno alla città come luogo delle mille infinite possibilità. Un luogo duro e drammatico, ma vitale. Poi, nel 2007 abbiamo aperto un percorso artistico che ci vede collaborare con alcuni componenti di un gruppo musicale, i Torpedo, e di una formazione hip hop, i JunglaBeat, accanto alla nostra parte visuale, Riot Generation Video. Questa sinergia finora ha prodotto tre lavori, in cui la città entra in maniera forte. In Roma-backstage di una metropoli irreale (del 2007) era forte la dimensione concerto, in Guerriglia live show (del 2008) che ha visto la collaborazione di Nicola Danesi De Luca dei Tony Clifton Circus (quale attore virtuale, compariva solo in video e non fisicamente), la città era come sfondo, in primo piano appariva la rielaborazione di un’oralità digitale. Lo spettacolo era nato su uno scambio di email tra casser francesi e ultrà italiani. Invece in Città spettacolo per corpi randagi, la città è protagonista. Da Roma-backstage, passando per Guerriglia, con Città spettacolo siete approdati a New York City, emblema della civiltà occidentale. Cosa rappresenta nel vostro immaginario artistico la Grande Mela? No, non c’è una sola città, sono tante. Le metropoli sono differenti, però hanno degli elementi di similitudine, incredibilmente sono degli spazi locali, ma anche molto globalizzati. In Città spettacolo per corpi randagi ci sono tante metropoli, ma è come se fosse una raccontare il nostro tempo. C’è una canzone in cui appare New York, anche in video, ma insieme ad altri pezzi di un concerto spettacolo in cui si cerca di narrare la molteplicità, l’essere proteiforme della metropoli di oggi. Vorrei tornare sulla forma concerto che vi state dando. La musica – riprodotta si trova in tutti i vostri spettacoli, ora però viene eseguita dal vivo - è un medium che fa passare con maggiore facilità il vostro messaggio? In questa nostra contemporaneità è un linguaggio più accessibile? Città spettacolo per corpi randagi lo possiamo definire un concerto teatrale, in cui ci sono due musicisti (Federico Camici e Andrea Cota, che hanno composto le musiche) e uno speaker performer che è Indo, mc rapper dei JunglaBeat (mc sta per master of ceremonies – maestro cerimoniere, ndr), il quale per la prima volta si confronta con un altro modo di essere in scena. Ci interessava la possibilità di ibridare... il teatro ha bisogno continuamente di impulsi nuovi per essere rivitalizzato e per riaffermarsi. E poi volevamo confrontarci inserendo all’interno di uno spettacolo persone provenienti da un’altra cultura, che avessero una forte adesione alla street art, alle culture metropolitane. Questo aggiunge al lavoro un elemento di verità, c’è qualcuno che racconta la città avendola vissuta sulla propria pelle e che, contemporaneamente, ha fatto propri quei linguaggi che dalla metropoli sono nati, l’hip hop, il rap e le culture street. Non so cosa succederà nel percorso di Margine Operativo. E’ sempre tutto in movimento, in mutamento. La trilogia nata in questi due anni, nella diversità delle opere, ha elementi di connettività, c’è una sinergia forte tra musica, azione scenica e testo. E’ un tentativo di creare un organismo multisfaccetato, ma con un centro molto forte. E’ una strada che stiamo percorrendo quella dell’interazione con i musicisti e con Indo. Ho un po’ eluso la domanda... la musica... cos’è il teatro? E’ sempre qualcosa che ha infinite possibilità di accogliere altri linguaggi e ricombinarli, rilanciarli, ripensarli, riformularli. Qui, c’è senz’altro una connessione forte tra musicisti e un altro codice artistico. Dal primo studio che ho visto di Città spettacolo ad Attraversamenti Multipli in autunno, ho verificato, qualche giorno fa all’Horus Liberato, quanto Indo si sia allontanato proprio dai codici del rapper, dal dire quelle parole nel modo che gli sarebbe proprio e si è avvicinato a una sorta di interpretazione del testo. Lo avete portato verso il “teatro”, ad un diverso modo di stare in scena? E’ vero. A noi interessano poco le forme pure, ci è sempre interessato un meticciato, un’ibridazione reale tra codici artistici. Ci interessava proprio questo, il percorso che poteva fare un mc rapper all’interno di uno spettacolo, senza assolutamente tradire il suo background. Viene fuori qualcosa di veramente bastardo che a noi interessa molto per la sua vitalità. Non è più una cosa, è qualcos’altro, sta al confine. E’ quel punto di mutazione che ha traiettorie interessanti. La frase finale di Città spettacolo per corpi randagi recita: «Questa città ama i suoi figli bastardi e li difende». L’underground romano si muove attraverso una rete sotterranea che emerge in superficie con estrema difficoltà. All’interno della città questo sommerso trova però forme e linguaggi artistici. Mi vengono in mente i vostri Attraversamenti Multipli e ora anche FRI (il Festival Roma Indipendente). Non sono molto d’accordo sulla concezione che si ha del sommerso. Cosa a questo punto è sommerso e cosa è emerso? Per tutto un pezzo di cultura mainstream questo potrebbe essere un sommerso. Però ci sono una serie di realtà, di progetti, di gruppi indipendenti che creano eventi molto partecipati. Sono molto vissuti dagli spettatori della metropoli, anche se hanno una forte difficoltà a connettersi con una cultura cosiddetta “principale”. E hanno un’estrema precarietà di risorse e di economie, hanno difficoltà a prodursi. Qui rientra il solito ragionamento sui lavoratori del contemporaneo, sugli indipendenti dello spettacolo, perché c’è un’endemica disattenzione. Non credo più che ci siano cose sommerse. Le cose attraversano l’Italia, le città, i festival e hanno una capacità, con i propri codici e i propri linguaggi, di impattare la realtà e anche di trasformarla. Noi da anni non ci sentiamo una realtà sommersa. Oramai l’underground è un pezzo di cultura del contemporaneo, è una delle sue facce. Questo però accade dagli anni Ottanta, ma limitando lo sguardo agli ultimi vent’anni, l’underground ha fornito “innovazione” alla cultura mainstream. Alcune cose sono approdate, spesso sono state cooptate dalla cultura istituzionalizzata, che ne ha ovviamente ridotto – annullato - la portata trasgressiva. L’importante è avere una grandissima lucidità, per attraversare luoghi, progetti e spazi diversi senza farsi sussumere. La differenza sta qui. Spesso c’è un utilizzo-sfruttamento di una serie di potenzialità che provengono da un mondo indipendente, che proprio grazie a questa autonomia ha creato traiettorie interessanti. FRI, ad esempio, è quest’esperienza nuova che si sta costruendo, per arrivare a un festival a giugno, realizzato in una collaborazione tra i centri sociali di Roma e molti gruppi indipendenti non solo di teatro, anche di musica. La cultura indipendente romana sta lavorando ibridando, questo è quanto sta creando il contemporaneo, che è molto complesso e multilivello. Ci sono cose che appaiono emerse perché hanno un riconoscimento sui giornali stampati (che ormai stanno scomparendo – penso sia molto più interessante quello che sta girando online e non è un caso che la nuova critica, quella più attiva e pulsante, sia tutta sul web). C’è una grande dicotomia tra le cose che appaiono emerse, ma che non hanno pubblico, sono autoreferenziali e avvitate su se stesse. Pensa, invece, alla capacità grossa che hanno una serie di gruppi e di progetti indipendenti – apparentemente sommersi - di intercettare fasce amplissime di pubblico. In questo senso si può dire che anch’essi siano molto conosciuti e dal punto di vista mediatico sono presenti su altri mezzi come il web. E’ complicato dire cos’è oggi sommerso. E’ chiaro che nel tuo discorso c’è la fatica reale di quel pezzo di cultura che lavora tantissimo, intercetta pubblico, crea traiettorie, a fronte di una mancanza strutturale di fondi e di continuità progettuale da parte delle Amministrazioni. Chi, come noi, vive di questo fa una fatica tremenda. Però continuate a lavorare a Roma e per Roma, e state progettando la nuova edizione di Attraversamenti Multipli, la nona. Sì, con grande precarietà, è un altro nostro atto d’amore nei confronti della città. Un ragionamento sullo spazio urbano, che andiamo a compiere inserendo spettacoli di venti gruppi in luoghi particolari (stazioni della metropolitana, dei treni) e in orari inconsueti (pomeridiani), per intercettare le persone che passano nella città. E’ proprio un omaggio, un movimento concreto dell’arte verso i luoghi di vita. E’ un altro pezzo di ragionamento rispetto alla metropoli. Noi lavoriamo dappertutto, anche in questo ci piace essere ibridi, attraversiamo spazi convenzionali, spazi urbani abbandonati e centri sociali. Siamo nomadi per scelta, anche artistica. Lo spazio è portatore di storia, quindi lavorare in luoghi diversi ti permette di incontrare persone diverse. E puoi capire se c’è la forza di impattare con questa diversità. Nei luoghi convenzionali sei molto protetto, invece bisogna stare sull’orlo del baratro per capire se un’opera d’arte ha la forza di confrontarsi con questo mondo. |