Un'immagine di
Un'immagine di "From a to d and back again"
Un'altra immagine dello spettacolo
Un'altra immagine dello spettacolo

Anno 2 Numero 14 Del 13 - 4 - 2009
La meccanica del disumano
La strategia dell’omologarsi “from Andy Warhol” all’ultimo spettacolo di Deflorian-Tagliarini

Mariateresa Surianello
 
Niente, non accade niente nel nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Eppure, i due attori, che sono già in scena quando gli spettatori entrano in sala, non cessano di ripetere piccole azioni quotidiane e insignificanti. In un loop snaturante e corrosivo al punto di rendere artificiali quei gesti da tutti riconoscibili e da ciascuno ripetibili, al di là delle proprie specificità individuali.
From a to d and back again, è gia tutto qui. E’ tutta enunciata nel titolo questa ripetibilità che Deflorian e Tagliarini rubano da Andy Warhol e, tradendone il suo “originale” autobiografico del 1975 con lo slittamento di due lettere, ricreano quasi a manifesto di un’epoca dentro la quale siamo sempre più sprofondati. Come in un girotondo schnitzleriano, ma di segno opposto, ribaltandone il significato in una negazione dell’identità. Lo sforzo dei due attori-autori-registi invece di tendere all’affermazione dell’umano, scalpitante contro ogni ruolo e convenzione sociale, vanno ad infilarsi nello stretto sentiero dell’omologazione, magistralmente concepito nell’escalation artistica dall’esponente meno nobile e più consumato della pop art. Della filosofia di Warhol i due attori in scena si fanno portatori eccellenti, con le loro parrucche e quel tono disincantato e insofferente verso ogni manifestazione di umani sentimenti.

Allestito nell’ambito del progetto ZTL_pro della Provincia di Roma, From a to d and back again è forse una delle produzioni che meglio si adatta allo spazio ostico del Teatro Palladium. E’ spinto sulla linea del boccascena, perché il lavoro non necessita di alcuna profondità fisica, lo spazio di azione e stato infatti consumato lungo lo sviluppo creativo. Ciò che resta ora visibile è una sintesi totalmente concettuale, con quelle due cassapanche grigie su cui siedono mobilissimi i due attori, separati al centro da Fabrizio Spera, immerso nel processo di ricomposizione e mixaggio di una colonna sonora che diventa elemento fondante del climax sospeso, di quella incapacità di esperire fino in fondo gli accadimenti che è forse il nucleo principe della messinscena. Coppia di artisti già rodata con Rewind, Deflorian e Tagliarini abbandonano qui il flusso dialogico del precedente lavoro a favore di pezzi caustici e monologanti che disegnano due personaggi instupiditi in un paesaggio metropolitano falso e disumanizzante, e regolato da quei mezzi di comunicazione di massa che riducono a oggetto insignificante ogni identità. Ogni emozione sembra perduta in questo teatrino del mondo che Deflorian e Tagliarini costruiscono con una radicalità debordiana, lucida e corroborante delle sue tesi.
La parola rimbalza da una all’altro, mentre eseguono una partitura gestuale incessante, Deflorian finalizzata a una vestizione e Tagliarini a una spoliazione, tirando fuori di continuo da una comune busta di plastica (quale materiale sintetico rappresenta meglio gli anni Settanta?) magliette, parrucche e cappelli, in una circolarità che alla fine rende speculari i due personaggi. Una specularità che però solo il pubblico può vedere, trovandosi i due sempre rivolti verso la sala, seduti nella medesima posizione e separati dal musicista. E proprio il pubblico, più che un semplice interlocutore, assume il ruolo di quarto protagonista dello spettacolo, illuminato dalle algide luci di Gianni Staropoli che dalla consolle orchestra questo coinvolgimento. Appare chiaro quanto lo specchio ricercato da Deflorian e Tagliarini sia lo spettatore, obbligato a guardare tutta la sua indifferenza. Anche di fronte al volo dalla finestra del danzatore Freddy Herko - il suicidio perde ogni significato tragico nelle parole di un Warhol che l’avrebbe voluto riprendere con la sua telecamera, per riprodurlo all’infinito e annullarne quindi la potenza di atto assoluto.

In una società spettacolarizzata, lo scollamento con il reale prosegue palesandosi attraverso il rifiuto ripetuto di ogni contatto con la natura, che diventa incapacità di lasciare il set cittadino e immergersi nella campagna, dove le forme di vita - essere umani o insetti che siano – sono meno addomesticabili. Per chi vive con disagio il contatto fisico con le persone, quello con gli insetti diventa insopportabile. E Daria Deflorian scatta in piedi per calarsi i jeans in modo da scrollarsi di dosso anche la più innocua bestiola.
Alla fine il gioco è chiaro, ripetibile, consumabile all’infinito, e potrebbe ricominciare daccapo. Ma un dubbio si insinua nello spettatore con l’ultima battuta pronunciata da Daria Deflorian che ormai è conciata come Antonio Tagliarini all’inizio dello spettacolo. Un dubbio inoculato dal rammarico per un mancato incontro. Oltre quelle immagini di indifferenza, oltre quella finzione forse si intravede qualcosa. E così restano i due attori, immobili, in attesa.
Lo spettacolo si sarebbe potuto chiudere qui e invece entrano in scena tre impavidi musicisti che scalzano gli effetti sonori di Fabrizio Spera con le note rock dei Velvet Underground. Un omaggio all’Andy Warhol promotore di sperimentazioni musicali, che forse, paradossalmente, toglie vigore all’epilogo.