La copertina di questa settimana è tratta dall'opera
La copertina di questa settimana è tratta dall'opera "Albino" di Allison Schulnik (courtesy 1/9 Unosunove arte contemporanea, Roma)
La Vignetta di Vauro che è valsa al disegnatore la sospensione dal programma Anno Zero in base alla decisione dei vertici Rai
La Vignetta di Vauro che è valsa al disegnatore la sospensione dal programma Anno Zero in base alla decisione dei vertici Rai

Anno 2 Numero 14 Del 13 - 4 - 2009
La distanza fra la terra e il cielo
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Il teatro, la letteratura, l’epica antica ci hanno insegnato che nelle tragedie esistono sempre dei colpevoli. A volte sono uomini, a volte sono dèi. E la loro colpa è frutto di un terribile percorso di espiazione che ricade inevitabilmente nel sangue oppure essa è il semplice frutto perverso della tirannide, del malgoverno, del dispotismo degli onnipotenti. Il teatro è degli archetipi, sì, come pure la mitologia. Qualcuno probabilmente ricorda un discorso in cui Carmelo Bene invitava costantemente a tornare agli etimi per capire cosa stiamo dicendo mentre veicoliamo informazioni attraverso le nostre bocche (di fuoco). Oggi invece è tempo di tornare agli archetipi per capire che cosa stiamo facendo mentre agiamo.

Nell’attuale società post-religiosa, post-culturale, post-industriale l’unica cosa umanamente praticabile è una rifondazione. A posteriori della speranza, della conoscenza e della pratica non c’è altro da fare. E’ la Nuova Preistoria, sì, e dunque è tempo di mitologia, come in tutte le pre-istorie. E’ tempo di archetipi, perché essi non sanno mentire ed è su essi soltanto che può fondarsi una Nuova Storia. Il ricordo di Pasolini torna di nuovo anche in questo editoriale. Diventa un leit-motiv nell’ultima stagione della Differenza, ma quando si parla di mito non può non venirci in mente, magari vecchissimo, come sarebbe adesso, continuare le sue “inchieste popolari”, in giro per l’Italia, per le spiagge che si popolano appunto solo la domenica o nelle vacanze di Pasqua, in questa primavera tiepida che fa venire voglia di uscire allo scoperto. E allora starebbe lì come un Tiresia, il nostro poeta, col suo microfono retrò a catturare le opinioni dei ragazzi di oggi come di quelli di allora. Sarebbero ancora i liceali di questa società post, ma le domande sarebbero differenti. Meno provocatorie, sarebbero appunto di religione, di cultura, d’industria, ma immutato sarebbe quel particolare disagio incolpevole, da esorcizzarsi magari con una risata, che pervadeva quei suoi esperimenti giornalistici degli anni ’60. Eh già, perché è interessante notare come nei ragazzi di oggi, ad esempio, la religione provochi una specie di strano imbarazzo, come gli si chiedesse qualcosa di perverso, almeno tanto quanto poteva esser giudicato tale quarant’anni fa domandare del sesso. Visto con gli occhi di una generazione cresciuta lontana anni luce dal Vangelo, tutto l’armamentario archetipo della Chiesa finisce per sembrare un paese dei balocchi attraverso cui preti pedofili attraggono bambini semplici. E così i ragazzi “sani e salvi” di oggi non rispondono. Non sanno rispondere. Confondono. E anche sulla cultura si avrebbe qualche sorpresa degna di nota. Il personaggio che potrebbe darcela è il classico ragazzo di buona famiglia, pettinato con la riga da una parte, figlio, probabilmente dello stesso ragazzo di buona famiglia intervistato da Pasolini negli anni ’60. Ci direbbe che magari gli dèi esistevano ai tempi dell’antica Grecia, poi sono morti, poi è nato Gesù, che poi è morto ed è nato Maometto…
E invece no. Gli dèi non sono esistiti ai tempi dell’antica Grecia. Se sono nati è stato per la vena mitopoietica di un popolo che aveva bisogno di uno scenario su cui disegnare le proprie parabole unendo i punti critici disseminati lungo la loro storia. Gli dèi allora erano la concrezione concettuale di uno spirito, di un vizio, di una virtù, erano la figurazione che potesse renderli identificabili appunto perché su di essi potessero calare le colpe. E medesimo destino toccava agli eroi tragici, i cui profili erano tracciati dagli stessi scrittori, inventori di divinità. Nei teatri di pietra o nei canti epici, il processo agli Dei e agli Eroi era un tramite per colpire quella parte di Zeus, di Era, di Achille insita negli spettatori. La condanna, esplicita o meno, implicava poi la catarsi, ossia la liberazione (attraverso la sua identificazione e non attraverso il suo debellamento) dal male che ogni spettatore sentiva dentro sé stesso.

Gli dèi all’epoca dei Greci non esistevano eppure non smettevano di essere processati. Finito il tempo degli dèi finito il tempo dei processi e delle colpe. Eppure a ben vedere gli dèi ci sono ancora e le colpe, beh, tanto per restare su Pasolini basterebbe ricordare quella lunga sequenza di «Io so» che ancora oggi resta però ufficialmente oscura. Ma ufficiosamente anche molti italiani «sanno» e se non sanno possono immaginare. E la foto di gruppo che apparirebbe come una vecchia polaroid da questa riflessione ritrarrebbe proprio una casta di dèi e di benedetti, semidivinità d’ogni sorta, i cui volti sarebbero deformati, come nel ritratto di Dorian Gray, o anche, volando più basso, come nelle vignette di Forattini. E allora a pensarci bene gli dèi esistono. E’ solo che in una società post-religiosa abbiamo dimenticato di riconoscerli come tali.

Questa illuminazione è figlia (illegittima) di un film, Il Sacrificio, di Andrej Tarkovskij. E sarà forse per l’iperreligiosità del suo autore che essa si è manifestata. Di questi tempi chi ha rivisto l’ultimo film del regista russo (datato 1985) lo ha fatto probabilmente sulla scia del lancio missilistico (finito male) da parte della Corea del Nord. Chi non aveva capito niente di questo assurdo side-show consumatosi nell’intervallo dell’attuale kolossal mediatico sulla crisi internazionale, ha provato a ricordarsi della minaccia nucleare degli anni ’80. Qualcuno allora ha ricostruito la vicenda nell’ipotesi di una nuova guerra fredda fra l’Occidente e un Oriente che oggi è rappresentato dalla Cina, ossia dal drago che fu il reale divoratore del gigante sovietico all’epoca di Nixon e che oggi siede sulla poltrona più alta nel consesso delle Nazioni attorniata da una collana di alleati come nel celeberrimo ritratto di Maria Teresa d’Austria circondata dai suoi figli.
Chi a questo punto fosse arrivato a recuperare il film di Tarkovskij (l’unico, a onor del vero, a non essere mai uscito in dvd nel nostro paese, rimanendo relegato nella videocassetta registrata da Rai Tre – a testimonianza di quanto ‘sta roba fosse vecchia) lo ha fatto per una pulsione romantica, nostalgica. E però, è toccato proprio a questi spiriti lenti di trovarsi di fronte ad un tema assai attuale. Nella pellicola, un intellettuale, religioso e legato ad un mondo concretamente industriale come quello del Nord Europa (guarda caso tutto ciò che oggi abbiamo notato essere “post”), ascolta alla radio l’annuncio del lancio dei missili che avrebbero consumato la prima e l’ultima guerra lampo nucleare, un annuncio che egli con rammarico dichiara «atteso da tutta la vita». Le testate le sente passare sulla sua casa, dirette chissà dove, chissà in quale direzione, a consumare comunque un unico olocausto. E in quel momento egli smette di vivere quell’annuncio come stanno facendo tutti gli altri invitati al pranzo del suo compleanno, ossia come la voce di un ineluttabile volere sospeso sopra le loro teste, il verbo che riporta il volere degli dèi. E mentre ognuno di loro si inietta un calmante e resta in salotto, in attesa di una fine che possa in qualche modo essere addolcita, Alexander, il protagonista, sale nella sua stanza e prega Dio che su di sé sia messo il peso di quell’Olocausto e che il suo sacrificio possa evitarlo. E così, la sua preghiera accolta lo vedrà compiere un rito d’annullamento che sfuma nell’alba di un nuovo giorno del tutto immemore di una catastrofe nucleare mai avvenuta. Ecco, nella supplica di Alexander si misura l’incolmabile distanza fra l’uomo moderno e gli dèi, quelli della foto di gruppo che viene scattata di tanto in tanto quando se ne presenta l’occasione, al G20, al G8, al giuramento del Governo, al matrimonio della figlia di questo o quel costruttore, imprenditore, banchiere. Alexander questi dèi non li riconosce, non sa vederli. La sua fede ha superato l’orizzonte classico delle deità ambigue, in equilibrio tra vizi e virtù, ed è cresciuta in un orizzonte moderno, in cui Dio s’identifica col bene supremo, un bene che salva in cambio del sacrificio di un innocente, di un agnello, che riproduca la crocifissione. Ma lo scacco del Cristianesimo, come delle altre religioni non pagane, sta proprio in questa incolmabile distanza fra la natura umana e quella divina, una distanza affrontabile solo dalla preghiera e mai dal giudizio perché Dio è incolpevole tanto quanto Alexander, il loro è un dialogo fra purezze che può risolversi solo attraverso il miracolo.
Ma nel mondo reale, nel mondo post-religioso, post-culturale e post-industriale il miracolo non esiste e dunque la risoluzione delle crisi non può volare sulle ali della preghiera, ma deve calare con la scure del giudizio.

Alexander nel suo anelito sacrificale dimentica di compiere un passaggio logico. Se ne dimentica sul serio, forse perché nel suo orizzonte radicalmente cristiano non ne riconosce l’utilità giacché non è all’uomo che competerebbe il giudizio. E dunque non si domanda di chi sia la “colpa” della catastrofe, se non sua e neppure di Dio. Se il protagonista del film di Tarkovskij si fosse fatto questa domanda avrebbe scoperto gli dèi con la risposta.
Nelle loro case, davanti al videoregistratore cigolante che manda una cassetta mezza smagnetizzata, in cui non si capisce quanto la desaturazione del colore si debba al direttore della fotografia (il fedelissimo bergmaniano Sven Nykvist) e quanto al tempo o alle “testine sporche”, però lo spettatore di oggi, post-religioso, post-culturale e post-industriale, quella domanda se la pone: di chi è la colpa? Eccoli allora gli dèi, affiorare nella memoria come i volti in una polaroid che prende forma. Alcuni visi non si riconoscono più, altri sì. Eccoli là gli dèi responsabili dell’Olocausto nucleare che nel 1985 uno sconosciuto svedese professore cristiano di Estetica ha evitato con il suo sacrificio. Quello di Tarkovskij è un film, è vero, ma per quanto ne sappiamo, potrebbe anche essere successo veramente. D’altra parte è da oltre un trentennio, appunto da quegli anni ’80, come ci dimostra il regista russo, che il nostro portato esperienziale è ridotto ai minimi termini ed ognuno di noi è costretto a compendiare con la televisione la propria consapevolezza e poter interpretare il senso della propria vita in base alle traiettorie imposte. Ciò ha creato un effettivo spaesamento, un “fuori luogo” (da cui sembra impossibile incidere sul reale) che è lo spazio in cui si trova oggi la maggioranza degli abitanti di questo pianeta. Il paradosso della percezione ce lo semplifica Marco Dinoi (già citato su questa rivista) nella reazione che accolse la prima proiezione cinematografica del treno dei Lumière: «sembra vero!» e in quella che ebbero gli spettatori di tutto il mondo davanti all’attacco alle Torri Gemelle: «sembra un film!». Da allora il mondo vive una guerra al terrorismo generata all’interno di una specie di “film americano” che inghiotte vite di persone nate e vissute a migliaia di chilometri da quell’attacco, non solo Italiani, inglesi o scandinavi, ma anche americani, perché la guerra si combatte lontano e senza contatto con i cittadini. Per provare odio, verso i nostri nemici dobbiamo immaginarli su uno schermo come i cattivi di X-men, per provare dolore verso gli sfollati di New Orleans dobbiamo farci emozionare dalle immagini da kolossal che vediamo proiettate nelle televisioni e sembrano uscite da film come The day after tomorrow. E comunque non ci riusciamo. Perché quando eravamo ragazzini  e avevamo paura dei film che vedevamo al cinema o sui teleschermi i nostri genitori ci rassicuravano dicendo che non c’è niente di vero in quello che vediamo in tv. E d’altra parte anche se lo fosse sappiamo che non è possibile provare un vero dolore per queste morti lontane, in celluloide o in digitale. Ce lo ha detto qualche settimana fa anche Pippo Delbono nel suo straziante La menzogna. Ogni tragedia si consuma su uno schermo, sviluppa nei nostri confronti una distanza pari a quella che c’è fra la terra e il cielo, trascende la nostra esperienza fisica, personale, emotiva, e i suoi danni sembrano sanarsi quando si spegne l’apparecchio. E’ dunque impossibile sviluppare tanta rabbia da esser spinti a fare qualcosa, a domandarci sul serio di chi sia la colpa, con tutto ciò che tale domanda comporta.  Così, nelle guerre che si combattono oggi, sui campi di battaglia e sui campi di lavoro, in tutte le tragedie contemporanee, gli dèi restano nascosti, sembrano non esserci. Eppure questa Nuova Preistoria li reclama perché ne abbiamo bisogno. E loro ci sono, ci sono sempre stati, c’erano nel passato remoto dell’antichità, come nel passato prossimo della Guerra Fredda e ci sono anche nel presente. Vanno solo riscoperti, o meglio vanno scoperti. Abbiamo bisogno degli dèi per compiere un rito di liberazione, un rito tragico che si chiama catarsi. Dobbiamo giudicare gli dèi per giudicare quello che in noi stessi appartiene al dio colpevole. Dobbiamo giudicare gli dèi e giustiziarli per uccidere in noi stessi ciò che ci rende colpevoli e ciò che dà loro potere. I politici, gli imprenditori edili di cui faceva menzione Travaglio nell’ultimo Anno Zero, i capitani di questa crisi con il loro seguito di scagnozzi. E’ la nostra trascuratezza che li ha posizionati in un Olimpo.

Ore 3.27 di lunedì scorso. La terra trema mentre mi metto a letto. Ho appena chiuso l’ultima edizione de «La differenza». Il mio appartamento si muove come fosse la coperta di una nave. E’ il terremoto. Penso: «Sembra un film».
Ore 8.10 della stessa mattina. Il telefono mi sveglia. Dall’altro capo c’è L’Aquila, la voce di un amico uscito dalla sepoltura delle macerie. E’ una voce umana. Lo schermo è sfondato. Penso: «Di chi è la colpa?».