Anno 2 Numero 16 Del 27 - 4 - 2009
La differenza: fatto
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
«La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi
».
Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità

La scorsa settimana Antonio Tabucchi ha lanciato un appello piuttosto chiaro alla stampa italiana: denunciare di fronte al Consiglio Europeo, la grave situazione che vive l’informazione oggi nel nostro paese. Il suo invito è stato raccolto immediatamente dalla stampa straniera che ha fatto viaggiare rapidamente per tutto il continente le preoccupazioni dello scrittore sul tema del conflitto d’interessi ormai cronico fra governo e media.
Questa circostanza fa tornare in mente una storia (più che un aneddoto) raccontata da Marco Travaglio nel libro Montanelli e il cavaliere, in uscita questa settimana. E’ l’arcinota vicenda dell’allora imprenditore Berlusconi che, alla vigilia della sua «discesa in campo», riunisce la redazione de «Il giornale», in assenza dell’allora direttore Indro Montanelli, e la arringa dicendogli che se avessero voluto computer (avevano ancora le macchine da scrivere!!!) e più soldi in busta paga avrebbero dovuto seguire la politica del suo nascente partito, altrimenti… ciccia. Risultato: Montanelli si dimise e con lui oltre cinquanta redattori. Era l’inizio del 1994. C’era la prima repubblica. Le televisioni di Berlusconi bombardavano il pubblico da una decina d’anni. Il quotidiano di Eugenio Scalfari aveva depotenziato (come il cemento abruzzese) la percezione e il pensiero della sinistra italiana. Eppure ancora uno strappo come quello di Montanelli era possibile. Oggi ve lo immaginate?

Rispetto al 1994 è accaduto un mutamento antropologico nei giornali italiani. Si sono (quasi tutti) rimpiccioliti. Nel formato, sì, ma non solo. I giornali si sono rattrappiti nel respiro in modo proporzionale rispetto alle lunghezze medie degli articoli e alle misure delle pagine. Aveva iniziato Repubblica a rimpicciolire (guarda tu le coincidenze!) e poi, con anni di ritardo, sono arrivati anche tutti gli altri che del «pensiero corto» hanno fatto una vera e propria tecnica di comunicazione. Le free press che non dicono assolutamente niente sono una sorta di «miracolo italiano», anzi, con tutta probabilità sono “il” «miracolo italiano» che Berlusconi promise proprio nel ’94. Oggi la più larga fetta del consumo quotidiano di carta stampata è costituito da una lettura meno impegnativa di Novella 2000. Addirittura su alcuni settimanali, alla fine dell’articolo, c’è indicato il «tempo stimato per la lettura», un indicatore che scoraggia ad affrontare le notizie più articolate, che tuttavia, su quei giornali ci finiscono raramente. La paga di molti collaboratori dei quotidiani si aggira attorno a 10 euro lorde per via del fatto che c’è sempre un giornalista meno informato, meno bravo, meno documentato, meno professionale che potrebbe scrivere lo stesso articolo per la metà dei soldi (e, infatti, alcuni giornali pagano anche 5 euro lorde). Ve lo immaginate, quindi, oggi l’abbandono della redazione de «Il giornale» da parte di 50 redattori?

Puro anacronismo. Per un motivo semplicissimo. In Italia non esiste più una «opinione pubblica» da difendere. Lo ha detto quest’estate Nanni Moretti, che, per quanto non stia simpatico ai più, sui temi della politica ha una sorta di attendibilità vaticinante (vi ricordate «Con questi leader non vinceremo mai!»?). E poi lo ha ribadito Eugenio Scalfari che ormai, su Repubblica, risponde a tutti come fa il portiere, per cortesia, senza entrare nel merito. E, infatti, nel suo lungo articolo ha dimenticato di parlare di sé e del ruolo del suo giornale giacché se in Italia è spirata la critica figuriamoci l’autocritica.
Per raccontare cos’è l’«opinione pubblica» al lettore di oggi, bisognerebbe citare una storia che sta scritta su una targa all’ingresso delle acciaierie Falk di Sesto San Giovanni. La storia racconta del colonnello nazista Paul Zimmerman che nel dicembre del ’43 disse agli operai della fabbrica: «Se fate sciopero vi dichiaro nemici del Reich». Un minuto dopo Zimmerman era l’unico uomo rimasto nello steminato stabilimento alle porte di Milano. Puro anacronismo. Ve la immaginate oggi, con la crisi, col lavoro precario e col mutuo da pagare questa compatta girata di spalle? E, infatti, non a caso, da febbraio esiste una cosiddetta «legge anti-sciopero» (in corso di armamento). Se scioperate vi dichiarate nemici… del Governo Italiano. Ma nessuno ha scioperato contro questa legge. Sarebbe stato un puro anacronismo.

«La Differenza» la prossima settimana non uscirà. E non per via di uno sciopero. Ma perché le nuove leggi del Governo Italiano e una certa disorganizzazione degli enti locali hanno portato le risorse economiche di questo settimanale ad esaurirsi. Per cui non ci sarà un nuovo numero de «La Differenza» neppure la settimana successiva o quella dopo ancora. Ne avevamo già parlato un mese fa in un «numero bianco» e oggi ci presentiamo puntuali all’appuntamento con l’ultima pubblicazione. In queste settimane sono successe due cose che vanno registrate. La prima è stata la partecipazione dei lettori che hanno scritto circa 150 lettere invitando gli amministratori a non far cessare l’avventura di questa rivista in base a motivazioni che ci hanno reso orgogliosi più di ogni cosa e per le quali ringraziamo di cuore ognuno di quelli che hanno trovato il tempo e il modo per sostenerci (le lettere si possono trovare pubblicate nella nostra rubrica «Lettere alla redazione»). La seconda cosa, che dipende decisamente dalla prima, è stata una maggiore disponibilità al dialogo dimostrata dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio. Entrambi gli enti hanno dichiarato la loro disponibilità ad attivare gli strumenti necessari a rinnovare il sostegno. La Regione Lazio ha inoltre messo in moto una ricerca di risorse concrete, ossia di economie, per ipotizzare una soluzione ponte che possa garantirci la sopravvivenza fino alla fine del 2009 in attesa che si aprano i giochi sui finanziamenti del 2010. Allo stato attuale, ossia al termine del count-down, non sappiamo, però, se tali risorse, quantificate in 40.000 euro, saranno trovate, se saranno effettivamente messe a disposizione e in che tempi. Oggi, dunque, dobbiamo spegnere l’interruttore, anche fosse per una sola settimana, perché le promesse non sono pane. E d’altra parte ci troveremmo in difficoltà a proseguire senza sapere nulla di concreto sul nostro futuro e tantomeno sul presente, come sarebbe difficile accettare soluzioni economiche diverse da quelle che possano garantirci un traghettamento fino alla fine dell’anno, perché sappiamo che un tempo inferiore non sarebbe sufficiente alle istituzioni per predisporre (se vorranno) gli strumenti adeguati ad una politica di sostegno più stabile per il futuro. Ciò dichiariamo, riconoscendo alle istituzioni coinvolte, che pur hanno preso tardivamente coscienza del problema, un nuovo piano del dialogo che oggi ci pare più soddisfacente rispetto a quanto denunciato quattro settimane fa. A loro, nostri editori, a prescindere da come andranno le cose, va dato comunque il merito di averci, fin qui, permesso di esercitare il nostro mestiere in modo libero e dunque in contro-tendenza rispetto a quell’Italia che Tabucchi dipinge nelle sue recenti dichiarazioni. E in questo, siamo sicuri di aver fatto la differenza.

In conclusione, vorremmo aggiungere che dal nostro punto di vista «libertà di stampa», vuol dire «scrivere le cose nel modo in cui si capiscano». Ecco tutto. Se poi, scritte, le cose non si capiscono allora, magari, bisognerà filmarle. E se anche così ci fossero problemi di comprensione si potrebbero spiegare a voce, fare un disegno, uno spettacolo teatrale, un film, prendersi il lungo respiro di un libro. La libertà non sta solo nel dire la verità, ma anche nel trovare la lingua giusta per intendersi. Quest’ultimo numero lo dedichiamo a questo tema che è stato centrale per noi redattori de «La Differenza» e del portale «Scenarindipendenti.it». Oggi, mentre i giornali rimpiccioliscono fino a sparire, ci sono ancora piccole o grandi realtà che attraverso una loro lingua permettono di decodificare l’esistente nella sua esatta entità, con tutte le facce e gli spigoli. A loro, a quelli di cui parliamo e ai molti che non citiamo, dedichiamo questo numero e tutta la nostra avventura, augurandogli, in nostra assenza, di continuare a fare la differenza.