Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Il decennio degli uomini-programma |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Parte prima: la teoria Il primo editoriale de «La Differenza» di quasi tre anni fa si intitolava «Dichiarazione d’indipendenza». Non era una dichiarazione solo nostra. Era la dichiarazione d’indipendenza di un intero mondo culturale che in quegli anni era in pieno fermento e che di questa parola ricca di ambiguità aveva fatto la sua bandiera. Per parte nostra, nei due anni scarsi di pubblicazioni settimanali cercammo di definire con la maggiore esattezza possibile i confini di quel fenomeno che raccoglieva le energie migliori della scena artistica italiana. E non è dunque sbagliato dire che il settimanale «La Differenza» fu la rivista degli indipendenti. E corretto allo stesso modo sarebbe dire che il settimanale «La Differenza» è stato una rivista indipendente. Indipendente nell’esercizio della critica e della riflessione, i lettori lo sapevano e anche le istituzioni che ci sostenevano, tanto che una dopo un primo finanziamento ante operam che ci permise di realizzare i primi due anni di pubblicazioni, un secondo finanziamento per proseguire il lavoro ci fu negato. Per qualcuno dei nostri partner non fu difficile farci capire che il problema era proprio la nostra indipendenza. E noi di conseguenza ci sentimmo “onorati di chiudere”. E fra l’ultimo numero del settimanale «La Differenza» e questo numero #-01 (il numero uno uscirà a gennaio 2011) c’è stato il volgere di un decennio. Siamo passati dagli anni 2000 agli anni ’10. Pochi mesi, d’accordo, ma con l’afflato di uno scantonamento epocale. Ed in effetti oggi che ricominciando le pubblicazioni, ed intendiamo, per tradizione, tornare sul concetto di “indipendenza” ci troviamo di fronte ad uno scenario assai diverso rispetto a quello del 2008. Da allora l’indipendenza non esiste più, non è più un concetto attuale. E in questo editoriale riconosciamo la fine della breve era dell’indipendenza, con buona pace di tutti quelli che ancora stavano cercando di capire cosa fosse. (I politici specialmente, che l’hanno sempre scambiata per il clientelismo degli sfigati). Noi per primi, una volta avanguardia della scena indipendente, non siamo più indipendenti. Lo eravamo quando avevamo un editore (il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Lazio e la Provincia di Roma). Da esso eravamo e abbiamo dimostrato di essere fieramente indipendenti. Ma oggi non abbiamo più editori. Non abbiamo più nessuno da cui essere “indipendenti”. Oggi decidiamo di uscire di nuovo con un mensile invece che con un settimanale, per ridurre i costi e rendere l’operazione possibile. Lo facciamo senza percepire alcun compenso pur essendo professionisti e operando come tali. E sapete perché? Perché dopo un anno e mezzo di chiusura i vecchi numeri de «La Differenza» vengono consultati ancora da circa 800 persone a settimana. Perché i nostri colleghi giornalisti, critici, intellettuali, artisti, continuano a chiederci di tornare ad uscire. Perché la maggior parte dei lettori della nostra rivista di cultura non erano i famigerati “addetti ai lavori”, ma persone normali, che ci hanno scritto perché tornassimo a parlargli del nostro paese attraverso lo sguardo verticale della cultura. Perché il tasso di crescita della nostra rivista durante i mesi di pubblicazione era il del 10% mensile e non ci sembra un risultato che possa ammettere scoraggiamenti. Perché siamo riusciti a parlare una buona volta delle cause invece che speculare sugli effetti. Perché abbiamo saputo costruire una tribuna capace di portare una voce in più nel dibattito politico-culturale. E in ultima analisi perché fare «La Differenza» ci rendeva orgogliosi di fare il nostro mestiere (e nel giornalismo di questi anni non è davvero poco). Da tutti questi motivi che sono i nostri nuovi editori noi non siamo “indipendenti”. Tutti questi motivi che ci fanno venir voglia di fare gratis questa rivista ci spingono ad essere “inter-dipendenti” ad un sistema entro cui abbiamo svolto un ruolo che intendiamo continuare a svolgere. Se ci guardiamo intorno, in quest’alba di nuovo decennio ci rendiamo conto che una volta di più gli anni 2000 hanno dimostrato l’impossibilità a prendere le distanze, a staccarsi dal mondo così com’è per farsene un altro a proprio piacimento. Un altro mondo non è possibile. Non ci sono margini di indipendenza dal sistema. Ci sono uomini che hanno programmi diversi. Non ci sono più mondi, ma un unico mondo con molte possibilità. Per quel che riguarda la cultura lo scenario ci sembra il seguente. Il teatro indipendente non esiste più perché non c’è più un “sistema” del teatro indipendente, ma ormai solo singole compagnie che operano in condizioni di non-dipendenza. Un cinema indipendente, a prescindere dai nuovi mezzi tecnici, non ha senso perché senza canali di distribuzione perde la sua essenziale dimensione popolare. Una letteratura indipendente non ha ragion d’essere giacché ogni pubblicazione si pone immediatamente a confronto con tutte le altre in un sistema ipertestuale di rimandi che poi si chiama “dibattito culturale”. Le arti visive hanno realizzato una connessione talmente stretta col sistema economico da rendere funzionale ad esso anche ogni possibile spazio di libertà. E l’architettura è prassi di un pensiero politico, dunque più che cercare l’indipendenza necessita di (illuminata) comunanza d’intenti. Ma niente di tutto questo è negativo. Gli anni 2000 hanno misurato l’attrito dell’entusiasmo degli anni ’90 con la realtà e ne hanno ridimensionato le proiezioni facendo rientrare ogni cosa in un unico sistema in cui tutti gli attori sono inter-dipendenti. Gli artisti, i critici, il pubblico, i politici, i cittadini. Siamo nell’era della connessione e siamo tutti connessi al sistema. Ognuno col suo programma. La differenza a questo punto la fanno solo i contenuti. Non impota da chi siamo “differenti”, importa chi siamo. Parte seconda: la pratica Capita la teoria bisognerà pur fare qualche esempio per ragionare in termini reali. Tutti gli articoli di questo numero lo sono certamente, ma fra di essi ce n’è uno che l’attualità di questi giorni porta alla ribalta e di cui mi piace parlare nell’editoriale, per capire quali problemi e quali soluzioni possano darsi ragionando in termini di “dipendenza”, “indipendenza” e “inter-dipendenza”. Da febbraio a novembre sono nove mesi. E nove mesi non sono bastati ai soci del Teatro di Roma per partorire un nuovo direttore artistico dopo le dimissioni (sempre troppo tardive) di Giovanna Marinelli. Che la seconda istituzione teatrale italiana resti tanto tempo senza guida non è certo buon costume e dunque sui giornali di queste settimane si comincia ad insistere con una pseudo-cronaca delle fumate nere che precedono l’elezione al soglio teatrale romano. I nomi che si rincorrono sono sempre gli stessi, ma per parlarne vorrei abbandonare per un momento la stretta attualità e consegnare ai lettori un ricordo. Mi ricordo la prima de I dieci comandamenti di Raffaele Viviani, ultima sera di Mario Martone come direttore del Teatro di Roma. Una sera indimenticabile per tutti i presenti che avevano approvato incondizionatamente o criticamente (come il sottoscritto) la linea Martone. Alla fine dello spettacolo la compagnia lasciò il palcoscenico passando per la platea e uscì dal teatro, dispedendosi per le strade. Gli attori avevano occhi che non si possono dimenticare, ma neppure quelli del pubblico (c’era tutta la nuova scena teatrale italiana) si potevano dimenticare. Il mattino seguente, sulla prima pagina del Messaggero c’era un sonetto di Gigi Proietti, che con la vena grossolana del poeta improvvisato, invitava Martone e i suoi sostenitori a tornarsene dalle cantine da cui erano venuti, come fossero topi da rimandare nelle fogne della semiclandestinità. Dopo quel sonetto Proietti, attore innegabilmente dotato, continuava a fare i suoi film di cassetta pieni di volgarità, a fare i suoi monologhi comici a colpi di «numme rompe er cà», e a fare grandi incassi programmando il musical “Menopausa” nel suo commercialissimo teatro Brancaccio. Al teatro di Roma si avvicendarono nel frattempo direttori incapaci di dare una identità alla struttura o una risposta alle tante questioni poste da una scena in continuo rinnovamento. L’unico segno incisivo restava e resta, dopo dieci anni, quello di Mario Martone, una eredità fatta di dispositivi e di barriere infrante, su cui il teatro è riuscito a costruire le sue uniche pagine positive durante il decennio. Sapevamo che sarebbe andata così. Lo sapevamo già allora, da quella sera in cui debuttavano I dieci comandamenti e gli attori finivano la recita abbandonando il teatro con negli occhi una rabbia civile. L’unico che non lo sapeva era quel Proietti che, di contro, vergava un sonetto che sarebbe stato seppellito dal torto per dieci anni. Fa dunque un certo effetto, oggi, ritrovarsi quel Proietti come primo candidato, investito addirittura di una proposta ufficiale del sindaco, alla direzione del Teatro di Roma. Candidatura politica, ça va sans dire, come tutte quelle di cui i giornali hanno parlato finora. La motivazione ufficiale sarebbe però l’ottimo sbigliettamento di quel baraccone turistico che è il Silvano Toti (!) Globe Theatre e anche un presunto lavoro sui giovani che però può valere giusto per chi di teatro ne sa poco o niente, giacché ospitare raffazzonate compagnie d’occasione fatte di ragazzi non è uguale a esercitare un ruolo di sostegno alla giovane scena romana che in realtà sul palco del Silvano Toti (!!) Globe Theatre non hi ha mai messo piede. E se Proietti era quello che Veltroni doveva sistemare da qualche parte dopo lo sfratto dal Brancaccio, gli altri candidati in seconda fila non sono meno compromessi. Maurizio Scaparro, altro candidato politico, è quello della gestione dissesstata dello stesso Teatro di Roma o di inutili disastri imposti dall’altro al teatro italiano come il progetto Les Italièns. A ingrossare le fila dei candidati c’è poi Luca Barbareschi, la cui carica politica rende inopportuna una nomina a dirigere una così importante istituzione di questo paese. Seguono a ruota Luca De Fusco e Pietro Carriglio, sistemati dalla politica alla direzione dei rispettivi stabili del Veneto o di Sicilia con cariche “a vita” come ormai non s’usa più neppure per il direttore della Banca d’Italia. Ma la rassegna delle candidature politiche non si ferma qui e il totonomi è lo stesso da anni. La cosa più importante però è che tutte queste candidature “dipendenti” dalla politica mettono insieme uomini che (senza entrar nel merito delle loro attività di attori o registi) non hanno la minima conoscenza del tessuto culturale in cui il Teatro di Roma dovrà muoversi, né tantomeno hanno dimostrato di avere quel tipo di capacità organizzative tali da dar risposta alle questioni che la città di Roma pone ad un teatro stabile pubblico, o, se preferite, ad un «teatro d’arte». In un contesto di giri di poltrone come questo preme, in primo luogo, ricordare che la direzione del Teatro di Roma non è una carica onorifica, ma una poltrona strategica per la costruzione della politica culturale (intesa in senso contenutistico ed economico) di un territorio complesso come quello di Roma, una città in cui si concentra, nel bene o nel male, circa la metà dell’intera mole del teatro italiano. Il Teatro di Roma non è un baraccone da tenere aperto, un circo a cui trovare un direttore-imbonitore. Questa istituzione è prima di tutto uno strumento utile a ricostruire il senso di un dialogo fra l’arte del presente e la comunità che nel presente abita la capitale, in tempi di estrema crisi culturale. E’ necessario dunque che il nuovo direttore sia prima di tutto un buon giardiniere che faccia finalmente crescere con ordine e metodo quella coltura territoriale che in questi anni è riuscita ad emergere solo a sprazzi, grazie comunque alla sua genialità. Ed è fondamentale che egli sappia mettere finalmente in connessione il teatro e il tessuto cittadino (quindi non parlo di numero di abbonamenti venduti, ma di capacità di penetrazione nella sensibilità e nell'immaginario dei cittadini). Il Teatro di Roma ha bisogno di qualcuno che i soldi pubblici non li spenda a fondo perduto, ma li investa dando un contributo alla creazione di una reale economia della cultura in questa città. Nessuno dei candidati “dipendenti” risponde a questo identikit. Dunque che fare? Dire che bisognerebbe rivolgersi a degli “indipendenti” in un numero di questa rivista che tnede a dimostrare l’esaurimento del concetto di “indipendenza” nell’arte sarebbe quasi un controsenso. E per questo saremo più chiari. Perché il Teatro di Roma possa funzionare come uno strumento servono quelli che in politica si chiamano “tecnici”, ossia degli “uomini-programma”. Non gente buona per tutte le stagioni, ma operatori capaci di stabilire un rapporto di “inter-dipendenza” col sistema e che hanno dimostrato di saper dare risposte funzionali alle domande più urgenti. In questa prospettiva i direttori ideali di un nuovo Teatro di Roma che volesse anche “fare” oltre che “esistere”, potrebbero essere essenzialmente tre. Tre figure dotate in primo luogo di una conoscenza estremamente approfondita della scena artistica romana, che va dai gruppi più giovani a quelli più consolidati. Non abbiamo problemi a fare i nomi, come gli altri giornali, ma ci teniamo ad aggiungere all’anagrafe anche le argomentazioni e gli ipotetici programmi che ognuno di essi potrebbe mettere in pratica per capire, con l’uno o con l’altro, come potrebbe trasformarsi il Teatro di Roma. In questo senso la scelta non ricadrebbe sul nome, ma sulla funzione che per almeno tre anni s’intenderebbe dare ad una delle principali istituzioni culturali della città. Il primo fra i tre direttori credibili (non dico certo probabili) è Ascanio Celestini, che nella direzione del festival “Bella Ciao” ha dimostrato di avere una grande capacità di coinvolgimento degli strati meno immediatamente prossimi al teatro e di muoversi su grandi numeri senza cedere al teatro commerciale. Il suo coinvolgimento potrebbe essere la chiave di volta per dare finalmente un senso al progetto dei “teatri di cintura” dislocati nelle periferie e finiti dopo molteplici traversie e fallimenti sotto l’egida del Teatro di Roma. Ne nascerebbe una struttura organica realmente metropolitana e capace di essere interfaccia culturale diffusa. Inoltre, la storia personale di Celestini ci fa immaginare che la sua direzione possa esser mirata ad approfondire e sostenere quella nuova drammaturgia narrativa entro cui si sono misurati i talenti più interessanti che Roma abbia esportato negli ultimi anni. Una ipotesi che riporterebbe il teatro verso il ruolo di agorà dedicata al confronto civile datogli ai tempi della sua genesi ateniese. Il secondo “uomo-programma” è Fabrizio Arcuri, inventore di un festival di grande successo proprio all’interno del Teatro di Roma e che nell’ultima edizione ha avuto un sostegno diretto del Comune di Roma, presumiamo in virtù della riconosciuta qualità del progetto proposto. Arcuri (come d’altronde anche gli altri) è stato uno dei protagonisti indiscussi della scena artistica romana degli ultimi 10 anni e con “Short Theatre” ha continuato a realizzare un attentissimo monitoraggio dei fermenti più vivi nell’ambito della creazione contemporanea. Il suo Teatro di Roma sarebbe con tutta probabilità una sorta di laboratorio, uno spazio di ricerca aperto alla città attraverso un confronto multilivello, fatto di incroci con altre arti, conferenze, performance, studi e spettacoli il cui segno si troverebbe in linea con le tendenze innovative dei maggiori teatri di tutta Europa. Per saperlo non c’è bisogno di essere visionari però, basta dare una rapida scorsa al programma del festival “Prospettiva”, che proprio in questi giorni Arcuri sta dirigendo a Torino su incarico del locale Teatro Stabile. Ultimo “uomo-programma” è Massimiliano Civica, regista pluripremiato in questi anni e innovatore di un teatro che guarda alla tradizione interpretandola con la profondità di cui solo i rivoluzionari sono capaci. Il Teatro di Roma di Civica sarebbe allora un grande teatro in cui il repertorio potrebbe davvero dimostrare tutte le sue potenzialità contemporanee. Un triennio alla co-direzione del Teatro della Tosse di Genova, uno dei principali teatri privati italiani, condotto come un grande teatro d’arte, ha ampiamente dimostrato le capacità di chi oltre ad essere un grande artista è anche uno dei più acuti analisti della scena italiana. A differenza degli ultimi direttori e dei candidati “dipendenti” che in questi giorni si stanno già facendo il nodo alla cravatta per il giorno della nomina, i tre “uomini programma” (o se preferite i tre candidati “inter-dipendenti”) hanno tutti meno di 40 anni, come i direttori dei più importanti teatri stabili europei. Nel momento in cui i cittadini cominciano ad auspicare realmente ad un rinnovamento della classe dirigente cominciare dalla cultura non sarebbe affatto un cattivo segno. Buona lettura. |