La locandina del film di Oliver Stone
La locandina del film di Oliver Stone
La finta copertina di «Fortune» dedicata a Gordon Gekko
La finta copertina di «Fortune» dedicata a Gordon Gekko

L'irresistibile gravitą del Capitale
Una riflessione a partire dal secondo capitolo di «Wall Street» di Oliver Stone

Attilio Scarpellini
 
Ci voleva un marxista brutale come Oliver Stone per imprimere un’immagine del Capitale abbastanza urticante da restare indelebile, come quella che un Gordon Gekko reborn (ma sempre interpretato da Michael Douglas) dopo venti anni di galera consegna al giovane Jacob Moore (Shia La Beouf): il denaro, gli confida durante un viaggio nella metropolitana di New York non è, come molti ingenuamente credono, di genere maschile, ma femminile. Per la precisione, il denaro è una puttana che sta nel tuo letto e non dorme mai, appena tu ti volti dall’altra parte per dormire, lei è fuggita in un’altra alcova. Ma la metafora di genere è ingannevole, in un film in cui le donne risultano ridicole quando tentano il rischio del denaro – come la madre di Jacob – perdenti e umiliate quando preservano e riproducono la vita, come la figlia di Gekko nello stucchevole happy end (simile a quello di tante dinasty shakespiriane, e per questo quasi incomprensibile al pubblico). La ricchezza si femminilizza per sostituzione, è un utero artificiale, l’oscuro, inquieto interno di quella grande bolla seduttiva che avvolge il secondo capitolo di Wall Street, chiuso e soffocato nell’instancabile rotazione del babelico skyline di New York che, effettivamente, costringe la palpebra dello spettatore a un battito nevrotico, insonne – ricordando, ma soltanto a posteriori, quanto lungimirante fosse la visione di Guy Debord (anno 1967) di un capitale giunto a un tal grado di accumulazione dal “trasformarsi in immagine”. E solo l’unicità dell’immagine è in grado di condensare (Debord avrebbe detto senza mezzi termini di “reificare”) il carattere inclusivo (non più semplicemente dominante, come appare chiaro nel film di Stone da cui ogni velleità antagonista o alternativa, ogni sussulto di indipendenza etica vengono rigorosamente vanificati) del potere sottostante, con la differenza non trascurabile che nulla sembra più distinguere questa immagine da questo potere: solo la morte, la stanca morte dei broker che finiscono sotto i vagoni del metrò, nel tentativo di chiudere finalmente gli occhi (to die, to sleep..) sembra innescare una differenza tragica (e persino nell’adrenalinica volgarità dello sguardo di Stone, la morte resta fuori di scena), ma è un momento, e un momento, vien voglia di dire, di quella nota dialettica in cui anche il vero diventa un momento del falso. Da questi suicidi il meccanismo sacrificale del denaro non è che maggiormente alimentato nella sua monumentale vitalità: è la vecchia immagine koestleriana del fiume della Storia che a ogni angolo deposita i suoi annegati e continua la sua corsa, la vecchia immagine fluida della corrente che va assecondata. O anticipata di poco dai nuotatori machiavellici come Gekko, che trasformano la fortuna in virtù, il femminile in maschile. Il risultato è paradossale: Wall Street. Il denaro non dorme mai sarebbe la prima opera critica – ammesso che questo termine conservi un senso – a essere anche compiutamente apologetica, nel suo presentare un mondo totalmente immerso nella cattiva infinità del suo pensiero dominante (greed, che una lingua cattolica traduce con una “avidità” troppo connotata dal suo status classico, di peccato capitale: la domanda Is greed still good? che campeggia sulla finta copertina di Fortune dedicata a Gekko nel film non ce la siamo mai veramente posta). Un mondo in cui l’economia in quanto gioco e simulazione ha definitivamente rimpiazzato la società che, difatti, non ha alcun accesso possibile alla sua rappresentazione sovrumana: sulla scena di questo secondo volume della saga finanziaria di Oliver Stone non si affaccia alcun personaggio paragonabile al padre operaio, normativo e antagonista del padre seduttivo e desiderante, che nel primo film era interpretato da Martin Sheen (guarda caso padre naturale del Charlie  Sheen che vestiva i panni di Bud Fox, il figlio conteso).

Non solo Gekko stavolta trionfa anche simbolicamente, trasformandosi da demone in deus ex machina, ma la sorte punitiva riservata alle generazioni successive, ai figli, si presenta come un derisorio contrappasso ideologico dell’illusorietà e della blandizie del loro riformismo: il denaro, paradossalmente, trionfa per la sua superiorità passionale e per il mimetismo emotivo che riesce a esprimere, rispetto alle bolle sentimentali di un’adolescenza cresciuta nella sua ombra. Non solo domina, ma irretisce, presentandosi come soluzione degli stessi mali che ha creato, simile alla spada d’Achille, che possedeva il magico potere di sanare le ferite che aveva inferto. “La prossima bolla dunque – gracchia divertito Gekko a Jacob – sarà verde”, un colpo da maestro portato al capitalismo eticamente, o ecologicamente, sostenibile. Ultima spia metaforica: la scena madre in cui Bretton James, lo spietato finanziere quarantenne interpretato da Josh Brolin, dopo essere stato abbandonato al suo destino dai vecchi numi che avevano vegliato la sua irresistibile ascesa, distrugge rabbiosamente una rara versione autografa del quadro di Goya Saturno divora un figlio appesa nel suo ufficio. E qui la visione kitsch di Stone si ribalta nel sublime, o viceversa. Immaginare che la ricchezza possa spingersi fino a privatizzare anche l’inestimabile (il famoso “patrimonio dell’umanità”) è una luxury da cineasta americano, perfettamente simmetrica al dato storico, altrettanto kitsch, che un magnate americano sia effettivamente in possesso del Codice atlantico di Leonardo da Vinci. Ma ostentarne la distruzione e la sfigurazione, in un raptus da revulsione magica, riporta l’arte alla sua capacità di rivelare il nocciolo tragico e orribilmente arcaico che continua ad annidarsi nel potere più moderno e performativo che esista. Anche in questo modo il capitalismo, che come Saturno divora i suoi figli, diventa numinoso. Ma come si ricorderà, questa metafora tratta dal mito, fino a non molto tempo fa, veniva applicata alle rivoluzioni. 

Lasciamo il film di Stone, riavvolgendolo nella dura essenza della sua prima metafora: il denaro è insonne. Il capitale è mobile, nomade, extraterritoriale, non riconosce alcun confine, non permette ad alcuna norma, etica o politica che sia, di rallentare o di trattenere il perpetuum mobile del proprio sviluppo. E’ una verità che da tempo viene ripetuta dai critici e dai teorici dell’economia globale come Zygmunt Bauman e che, soprattutto, viene praticata dai suoi protagonisti. Anche da quelli che appartengono alla cosiddetta economia reale che, di solito, viene distinta dalla “parte maledetta” di quella finanziaria: solo le speculazioni virtuali e irresponsabili di quest’ultima, si è detto, hanno precipitato il sistema capitalistico in una crisi più grave di quella del 1929. Eppure lo spettro della delocalizzazione delle attività produttive è da più di un ventennio la sferza ricattatoria con cui l’indipendenza competitiva del capitale governa il proprio processo di liberazione, di secessione da una società troppo arretrata sul territorio, rimproverandole in continuazione di non essere al passo – con le sue regole legali imposte al mercato del lavoro, con i suoi limiti etici, sovente costituzionalizzati, all’impresa economica – della velocità dell’economia globale. Nel 1913 uno scrittore cattolico – ma di matrici socialiste – come Charles Péguy si preoccupava dell’instaurarsi di una economia del rischio che avrebbe strappato alla povertà (sic!, già anacronistica alla sua epoca, la povertà péguysta, un po’come quella pasoliniana, era intesa come una forma di fedeltà culturale al passato “naturale” della società e del lavoro) ogni residua autonomia biopolitica per sacrificarla ad un’interdipendenza, di cui il denaro era il collante, dove anche “chi non gioca perde, e perde sempre; dove chi si limita nella povertà è incessantemente inseguito persino nel rifugio di questa povertà”. Quasi un secolo dopo, Bauman, constata l’avvenuta vanificazione negoziale di questo limite nella dialettica tra il capitale e il lavoro, grazie alla forza di elusione con cui la mobilità del primo mette in scacco la forzata immobilità del secondo: un tempo “il reddito di proprietari ed azionisti dipendeva dalla buona volontà dei lavoratori  quanto la sussistenza di questi ultimi dai posti che quelli offrivano. Oggi non è più così; una delle parti (ma non l’altra) è dolorosamente consapevole che il partner negoziale può abbandonare il tavolo in ogni momento: una spinta di troppo e la mobile controparte può decidere semplicemente di trasferire tutti i propri beni altrove privando l’altra della possibilità di negoziare” (Bauman, “Ordini locali, caos globali” in La società individualizzata, Il Mulino 2001 pp. 50-51) E’da un uso accorto di questa strategia di elusione, se non andiamo errati, che la Fiat di Sergio Marchionne trae i suoi successi contrattuali, utilizzando l’assoluta indipendenza del capitale, da qualunque sistema di riferimento gli sia esterno, come orizzonte estremo su cui scontare le proprie vittorie relative – e su cui stagliare l’immagine, mai così brillante, del proprio potere. La massimizzazione del profitto, così pericolosamente vicina al greed di quell’economia in eccesso (di rischio e di desiderio) che è il credo esistenziale di Gordon Gekko,  è un valore altamente condiviso in una società che ai soldi attribuisce un potere numinoso  di glorificazione o di dannazione dell’individuo, ormai molto al di là della grazia che Max Weber vedeva aleggiare sulle vite riuscite dei capitalisti protestanti, laddove il lavoro è svalutato dalla sua stessa invisibilità in un’economia dominata dall’epifania gaudiosa del consumo – o dalla depressione morale che corrisponde al suo contrario…