Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
I margini per un’architettura RE-ale |
Rapporti di forza dentro e fuori la Biennale di Venezia |
Romolo Ottaviani |
Quest’anno arrivo alla Biennale pieno di entusiasmo: il direttore è un architetto, a differenza delle ultime edizioni in cui questo ruolo era di storici o critici. Kazuyo Sejima, una donna dall’inesauribile creatività, che in architettura significa sfida e sacrificio, soprattutto quando la ricerca coincide con l’esperienza professionale, ovvero quando dallo studio e dalla ricerca riesci ad arrivare fino alla realizzazione concreta dello spazio che hai studiato. Il titolo di questa edizione è “People meet in architecture”, il comunicato stampa recita: «L’idea è di aiutare gli individui e la società a relazionarsi con l’architettura, aiutare l’architettura a relazionarsi con gli individui e la società, e aiutare gli individui e la società a relazionarsi tra loro» e ancora: «Può l’architettura chiarire i nuovi valori e i nuovi stili di vita dell’XXI secolo? Questa mostra – ha spiegato Kazuyo Sejima – sarà l’occasione per sperimentare le potenzialità dell’architettura, per comprendere in che modo essa esprima nuovi modi di vivere, e per mostrare che è il frutto di valori e approcci differenti». Insomma, le aspirazioni di ogni architetto pensante della nostra generazione: aprire i confini di una disciplina caratterizzata da molti condizionamenti tecnici, legislativi e economici a un paesaggio più vasto di competenze e soggetti che ne motivi la creatività, perché nulla esiste o può trovare significato al di fuori delle trasformazioni dei fenomeni sociali. La prima impressione della mostra è che sembra meno congestionata di presenze, nel senso di invitati, delle scorse edizioni, tutto sembra essere avvolto da un’atmosfera più vicina al mondo dell’arte più che a quello dell’architettura. Il progetto architettonico e i suoi linguaggi tecnici sembrano aver lasciato il posto ad una componente comunicazionale dell’architettura. Sono apparsi persino almeno due nuovi padiglioni temporanei, là dove c’erano spazi vuoti, appositamente dedicati a tavole rotonde e discussioni, che si susseguono a ritmi incalzanti e annunciati via megafono, appuntamenti che si accavallano tra loro contemporaneamente alle consuete inaugurazioni dei padiglioni nazionali, producendo uno strano stato di confusione. Nel Padiglione dell’esposizione, ex Padiglione della Biennale ed ex Padiglione Italia, di cui la scritta in facciata fa sempre riferimento al nome dell’edizione precedente, tra tante cose stimolanti, come la mostra dedicata a Lina Bo Bardi, troneggiano due ampie esposizioni di grande interesse: una di Oma, ovverosia l’olandese Rem Koohlahs, guru assoluto e incontrastato dell’ultimo ventennio dell’architettura globale e l’altra il grande Andrea Branzi, architetto radicale dalla lucidità teorica indiscutibile. Ma, usciti dal padiglione centrale della mostra e girando prima tra quelli nazionali e raggiungendo poi la sede alle corderie, comincio a respirare uno strano clima di fiera campionaria, dove la spettacolarità è una veste d’obbligo dell’architettura. Da una parte si articola come in un catalogo pirotecnico offerto dallo star system alle pubbliche amministrazioni, ai politici e ai potenti del mondo, che va dal modello mistico primitivo (scavato nella pietra), a quello etnico, all’heavy architecture, all’architettura volante, a quella trasparente, a quella dissolta nelle saettanti evoluzioni di un getto d’acqua per concludersi con il dolciastro spettacolo promozionale del futuro architettonico di Wim Wenders, video in 3D della biblioteca della Sejima realizzata in Svizzera. Dall’altra, i padiglioni nazionali sembrano allo stesso modo propagandare i differenti territori come luoghi dove investire, dove andare a vivere, dove andare in vacanza; in questo caso i toni sembrano di sapore immobiliare, è incredibile il padiglione russo che propone la trasformazione di tristi cittadine industriali sovietiche in paradisi ambientali con tanto di fondali dipinti e audio di cinguettii degli uccellini. Questo scenario è forse anche frutto di una mia impressione dovuta alla stanchezza dei giorni della ‘vernice’, ma tra tanta spettacolarizzazione non riesco a vedere progetto d’architettura, né tanto meno un’idea di città, di metropoli, né la tematizzazione sociale che credevo di trovare. Il Padiglione italiano, curato coraggiosamente in controtendenza da Luca Molinari, è una sorta di complessa enciclopedia dell’architettura italiana degli ultimi vent’anni, che ordina come alfabeticamente, ma per argomenti (per interrogativi), architetture nostrane realizzate; un’operazione pregevole che a cavallo tra un lavoro storico ed uno curatoriale pecca di non darci un’esaustiva spiegazione del perché alcuni autori appaiono più volte ed altri ne sono esclusi. Tra le immagini usate per contestualizzare la rassegna ci sono copertine di libri e riviste, tra le quali mi ha fatto piacere trovare “Gomorra” e il mio lavoro grafico “Planisfero Roma” del 1995, che ricorda l’eroico giro di Roma di “Stalker, attraverso i territori attuali”. In questo scenario, la parola indipendente fatica a trovare un senso. Solo tornando di nuovo ai Giardini della Biennale mi accorgo che uno dei padiglioni per le tavole rotonde è Kitchenmonument, una struttura pneumatica pensata nel 2006 per creare spazi sociali istantanei e itineranti, ideata dagli amici Raumlaborberlin, un gruppo che ha fatto dell’indipendenza la propria bandiera, pur essendo cresciuti con incarichi pubblici per interventi temporanei. Alla Biennale il loro spirito trasgressivo però non emerge, è irrimediabilmente soffocato da una dimensione del pittoresco in cui viene rilegato dallo sguardo bonario delle Archistar che vi entrano e escono col susseguirsi delle tavole rotonde, impegnati in un continuo talk show che prefigura un’idea mediatica e patinata dell’architettura contemporanea. Per fortuna più tardi ho modo di incontrare Matthias Rick e Benjamin Foerster-Baldenius di Raumlaborberlin al Morion, centro sociale autogestito di Venezia, dove ha luogo il progetto Re-Biennale, interessante progetto di architetti indipendenti che riciclano i materiali dell’allestimento della mostra e con essi costruiscono altri spazi. La proposta nasce dalla sperimentazione di autorecupero realizzata dal gruppo veneziano dell'Asc. L'autoproduzione, ciascuno contribuendo con le proprie competenze, materiali e “immateriali”, ha permesso in un primo tempo di recuperare unità abitative nei quartieri di edilizia sociale e successivamente di optare per una riconversione culturale e produttiva di aree abbandonate, dai giardini e gli orti agli edifici, dai campi o cortili alla spiaggia-presidio a ridosso dei cantieri del MoSe. Recita il sito del progetto. Questo ha permesso di utilizzare meglio le risorse della città ed ha creato i presupposti per un progetto ergonomico che prospetta soluzioni nel rispetto dell'eco-sistema sociale e dell'habitat territoriale sfruttando il social network già disponibile. Infatti, il progetto nato con la scorsa edizione della Biennale ha dato vita a un network a cui hanno aderito molti gruppi di ricerca italiani e stranieri che da tempo lavorano sul tema della sostenibilità sociale e ambientale del progetto urbano. Esiste quindi una prima mappatura di luoghi che ambirebbero ad una dimensione comune, luoghi disponibili ad un percorso progettuale e di cantiere-scuola condivisi. L'obiettivo dell’operazione è quello di invertire la tendenza del progetto di architettura e, partendo dai materiali di recupero, attraverso un meccanismo virtuoso in cui entrano in gioco cittadini, studenti, istituzioni (IUAV e Biennale), gruppi di artisti ed architetti internazionali, concorrere al processo di rigenerazione di uno o più spazi urbani individuati. Ora, visti il successo e la visibilità del progetto Re-Biennale, la Fondazione La Biennale di Venezia pare interessata a mettere il suo nome su questa iniziativa. A mio avviso questo non ne cambierà il senso. Perché in un momento come questo in cui le risorse per la sopravvivenza del pensiero libero sono ai minimi storici, è l’idea, il contenuto di un progetto a garantirne l’indipendenza; anche laddove sembra proprio che nulla possa più essere assolutamente indipendente, che nulla possa sopravvivere autonomamente e che non resti altro da fare che sopravvivere ricavandosi degli spazi vitali negli interstizi dell’esistente è il senso di quello che facciamo che rinnova il significato del termine resistente. |