La copertina del libro di Michel Houellebecq
La copertina del libro di Michel Houellebecq
Una immagine da «Detroit disassembled» di Andrew Moore
Una immagine da «Detroit disassembled» di Andrew Moore

Anno 3 Numero 00 Del 1 - 12 - 2010
Europa nuova periferia globale
Il nuovo Medio Evo di Michel Houellebecq nell’ultimo romanzo «La Carta e il territorio»

Attilio Scarpellini
 
Dopo dieci anni di completo isolamento, Jed Martin, il pittore protagonista del romanzo di Michel Houellebecq La Carta e il territorio, varca il cancello della sua proprietà di famiglia nella Creuse e scende verso Chatelus- le-Marchais, un villaggio di cui ha solo vaghi ricordi infantili. Rammentava un piccolo paese decrepito della Francia rurale e trova un paese che si è raddoppiato o triplicato e che tuttavia è occupato da case linde e fiorite, costruite con un rispetto maniacale del tradizionale ambiente limosino. Nelle vie del borgo, si aprono ovunque le vetrine dei negozi di prodotti tipici regionali e di artigianato artistico locale, ma in poco meno di centro metri ben tre caffè  propongono connessioni internet a basso costo, con depliant che illustrano le procedure della rete; il dipartimento regionale ha addirittura finanziato il lancio di un satellite per migliorare la velocità dei collegamenti. Seduto a un caffè ordina un bicchiere di Meneton-Salon rosé e osserva una famiglia di cinesi mentre consuma la sua colazione limosina al non modico costo di 23 euro a testa. Il paese in cui Jed Martin si risveglia è molto cambiato e in una direzione imprevedibile – e tuttavia basta voltare lo sguardo verso alcune zone della Toscana – ad esempio la Val d’Orcia – per ritrovare gli stessi segni che Houellebecq ha sviluppato fino alle estreme conseguenze nella sua ricognizione utopica della Francia profonda: il ripopolamento dei piccoli centri ad opera di ex metropolitani che si riconvertono in attività artigianali più o meno legate al territorio, lo sfruttamento sempre più intensivo della memoria culturale e dei sapori locali, il proliferare di agriturismi, hotel de charme, un costante lievitare dei prezzi che si accompagna all’affluenza di nuove ondate di turismo internazionale che integrano o sostituiscono quelle ormai semi-radicate, soprattutto di origine anglosassone. Tra Montepulciano e Monticchiello, è forse presto per i cinesi – lo è probabilmente anche per il Limousin – ma non per gli israeliani o i nouveaux riches della Russia putiniana che, nell’avveniristica Chatelus-le-Marchais de La carta e il territorio, rappresentano la clientela più apprezzata perché quella ancora capace di praticare un’economia del poltlach, della prodigalità improduttiva e ostentatoria.

La Francia del XXI secolo profetizzata dallo scrittore delle particelle elementari, insomma, ha definitivamente voltato le spalle alla modernizzazione, blindando la propria economia nella musealizzazione dei propri spazi rurali e nel commercio di una certa arte del vivere che, con una sorta di ironica saggezza, utilizza il futuro per potenziare il passato, il satellite e la rete wifi per rendere più performativi il territorio e il paesaggio. L’immigrazione barbarica, nel frattempo, si è allontanata dall’esagono seguendo le rotte di un’economia che vive le sue disastrose crisi cicliche, sempre più ravvicinate, in scenari come il Brasile o l’Indonesia: l’Europa – o almeno la Francia a cui Houellebecq ritorna prepotentemente in questo ultimo romanzo – non solo non è più il centro della storia mondiale (non lo è più, del resto, fin dal “secolo americano”), ma è un’estrema periferia che trasforma il proprio anacronismo in un giardino di inverno, una tregua nella velocità, e nella violenza, di un mondo dominato dalla generale interconnessione degli scambi, umani ed economici, a cui il resto del pianeta guarda come a una possibilità – alla “possibilità di un’isola” per restare nel linguaggio del nuovo Prix Goncourt.

Certo, La carta e il territorio, è un’opera-mondo che non si lascia riassumere da un frammento: Houellebecq ha solo apparentemente attenuato il suo pessimismo morale in un’apocalisse soffice che coinvolge tutte le sfumature di quella che chiamiamo identità, da un erotismo un tempo ossessivo che si stempera in acuta nostalgia per un amore comunque perduto (o declinato attraverso la memoria, come nei romanzi dell’ultimo Kundera) a un’arte che sopravvive alla volatilità del proprio valore di scambio solo attraverso il sacrificio di un individuo che le è completamente sottomesso, dal rapporto con il padre e con la patria a quello con la morte (e con l’ipocrisia della dolce morte offerta come consumo di lusso alle classi alte dalle cliniche svizzere che inquinano i fiumi in cui sversano i resti delle cremazioni umane).

Persino il personaggio di Michel Houellebcq si affaccia sul romanzo di Michel Houellebecq animando una clownerie dell’identità travestita da thriller, ahi quanto malinconica nel momento di scoperchiare il proprio camerino, malinconica e, anche in questo caso, ostentatamente regressiva: sul comodino della sua stanza nella vecchia casa familiare che l’autore ha riscattato gli unici libri che compaiono – i classici livres de chevet – sono di Vigny e di Balzac e tra le sue disposizioni testamentarie c’è quella di essere seppellito nella terra secondo il rito di Santa Romana Chiesa…Un altro provocatore di professione che, sul crinale della maturità, si avvia per la strada delle conversioni estetiche già calcata da Barbey e da Lautréamont, da Wilde e da Baudelaire. Al culmine di tutte le acrobazie identitarie, artistiche e sessuali, politiche e biopolitiche, solo l’anacronismo diventa sorprendente o nuovo (come cantava Apollinaire in Zone: «la religion seule est restée toute neuve la religion…»). Ma proprio tra le maglie (ironiche e non sempre: basta  leggere il pezzo sul Beato Angelico a pagina 46) del presunto anacronismo si annida un utopismo sobrio, da cui è stata preventivamente disinnescata ogni carica ideologica e che nel libro di Houellebecq passa attraverso un nome non soltanto dimenticato, ma clamorosamente incongruo rispetto all’atmosfera glamour in cui la vicenda è comunque immersa. E’ il nome di William Morris, il fondatore di Arts and Crafts, teorico (e pratico) di un’economia rigenerata attraverso il ritorno alla lavorazione artigianale di stampo medievale, l’uomo che sognava di redistribuire, oltre al reddito, anche la bellezza. Morris è il nume tutelare di una religione del lavoro che ha sostenuto il padre di Jed Martin nel corso di una vita freneticamente votata al tradimento professionale dei propri ideali. E l’improvviso risveglio di Jed nella Francia rurale rinnovata grazie alle tecnologie avanzate ricorda quello del narratore di News from Nowhere, l’unico romanzo di Morris, che si risveglia in una Londra sconosciuta dove solo qualche nome gli consente di orientarsi: una folla felice e vestita di abiti sgargianti si assiepa per le strade, lui sceglie in un negozio una pipa artisticamente lavorata e si vede offrire da due bambini un bicchiere di eccellente vino del Reno, poi si intrattiene con un barcaiolo che gli vanta la bellezza della città tornata ai fasti dell’architettura medievale ( e gli spiega che il comunismo è ormai il fondamento economico del mondo). Tipicità, artigianato artistico, rispetto della cultura del territorio: gli stessi ingredienti della Londra a un tempo anacronistica e utopica di Morris tornano nel villaggio limosino de La Carta e il territorio – persino la cortesia umana dei nuovi abitanti (“istruiti, tolleranti, affabili”) sembra rispondere a un allentamento della morsa alienante in cui la produzione industriale stringe il lavoro umano –ma con il comunismo in meno e il mercato in più. Ed è questa differenza di fondo, a cambiare il tono della descrizione e a modificare il colore della visione di Houellebecq: guidate da un “ecologismo commerciabile” e da una razionalità etica più rispettosa del denaro e delle gerarchie sociali le nuove generazioni che ripopolano la Francia rurale e turistica, dove la natalità torna ai livelli precedenti la crescita zero, ricostruiscono un’economia dell’autentico che con l’origine ha poco a che vedere e di cui anzi la contaminazione è la condizione necessaria.

Difficilmente questa isola potrebbe sopravvivere se i flussi del turismo globale – l’ormai leggendaria capacità liquida del neo-capitalismo cinese, la propensione irrazionale alla dépense dei nuovi russi – non la investissero con il loro desiderio di ritrovare, nel mezzo della tormenta economica mondiale, il bene quasi senza prezzo di un’immagine cristallizzata della cultura (cioè di un’arte di vivere come la chiama giustamente Houellebecq). Per molti, ma non per tutti, come diceva una vecchia pubblicità, l’utopia francese de La carta e il territorio è una sorta di rifrazione delle teorie di Morris che, guardata nel dettaglio, scopre l’inesorabile debolezza di ciascuno dei suoi elementi – proprio come accadeva ai cloni della Possibilità di un'isola, sempre più fiacchi e sbiaditi, via via che si allontanavano dalla matrice. L’identità è l’ultima bolla consolatoria, dopo che quella dell’arte contemporanea è esplosa sulla faccia dello stesso Jed Martin, ma ciò che Michel Houellebecq pensa realmente del tipico, del cosidetto terroir, lo si legge in più di una pagina di un libro che è anche un’ironica traversata della mitologia culinaria della Francia profonda con il suo miscuglio postmodernistico di sapori medievali ed edonismo new age. Il dolente segreto della Carta e il territorio va ben oltre l’identità e la tradizione, sconfinando nella fascinazione del vegetale, della sua inumana ostinazione destinata – come nelle immagini della Detroit disassembled del fotografo Andrew Moore – a conquistare e a seppellire ogni centimetro dello spazio storico. E tuttavia, la nostalgia di Houellebecq per i Magnifici mestieri dell’artigianato o per “quel paese la Francia” che è “indiscutibilmente il suo” non si lascia ridurre nel recinto di una parodia. E’ lancinante, reale, come tutte le illusioni. 



Michel Houellebecq,
La carta e il territorio, traduzione di Fabrizio Ascari, Bompiani Editore, Milano 20010, pagg.360, 20 euro