Julian Assange
Julian Assange

La rivoluzione di Assange e le scarpe del giornalista
Una riflessione a margine di una bufera di carte

Emanuele Giordana
 
Come spesso accade con fenomeni eclatanti e sconvolgenti, com'è il caso Wikileaks e del suo guru Julian Assange, la platea si divide rigorosamente in due fazioni. Chi condanna, arrivando a ritenere l'attività del sito una sfida alla sicurezza nazionale e Assange un terrorista di nuova generazione, e chi plaude all'avvento di una nuova era santificata dalla presenza di un cavaliere solitario, eroico e senza paura.
Per quanto mi riguarda sono tra coloro che militano nella seconda  schiera, con qualche distinguo: ho firmato petizioni per Assange, scritto articoli su di lui e mi sono abbeverato alle fonti di Wikileaks. Ma con tutto il rispetto per Julian e la gratitudine per i file nascosti ora intellegibili, non credo che, come qualcuno ha detto, si tratti di una rivoluzione. Soprattutto non credo che Wikileaks cambierà il giornalismo e i giornalisti anche se, indubbiamente, oggi ne sappiamo di più. Credo invece che Wikileaks sia una manna per gli storici che hanno bisogno di documenti assai più di noi cronisti a cui molto spesso una notizia viene confidata per le vie brevi, in qualche corridoio o in qualche caffè. Per strada insomma. Se anzi ci abituassimo a considerare i cablogrammi segreti la notizia su cui lavorare, proprio perché è (era) segreta quindi appettibile, sarebbe la fine del giornalismo, una professione già in grossa crisi.
Il giornalista, non meno di Assange, è un cavaliere solitario. Con macchia e paura, ma che lavora in solitudine alla ricerca di qualche notizia. Un giornalista non è un amanuense che ricopia in bella quello che è stato scritto da qualcun altro. La sua vera essenza, la parte nobile e affascinante del suo lavoro, è la ricerca. Che, assai più di quella dello storico, si svolge non solo nel presente ma attraverso il contatto umano diretto, la fonte in carne ed ossa che si fa notizia.
Wikileaks ci sta facendo un grosso favore ma rischierebbe di annichilirci. Perché cercare di carpire una dichiarazione, un'ipotesi, una soffiata quando tra qualche mese la vedremo scritta in bella nel cablogramma di questa o quella ambasciata?
Ciò che la storia di Wikileaks insegna è solo che i segreti raramente rimangono tali e che, prima o poi, o vengono desecretati o scoperti in qualche vecchio archivio. Wikileaks riduce il tempo della scoperta ma arriva sempre all'altro ieri. E invece il giornalista lavora adesso: “oggi su domani”, come si dice in gergo.
Del resto, proprio qualche giorno fa, ho pubblicato sul Secolo XIX di Genova una soffiata di Wikileaks: un incontro tra Holbrooke, Carl Bildt ed Ettore Sequi che, nel dicembre scorso, volevano posporre le elezioni afgane di questa primavera. E' una notizia? Certo che lo è ma è una notizia...vecchia. Un retroscena di un anno fa. Che impatto avrebbe avuto il mio articolo se avessi raccontato quella conversazione, magari carpita a un algido funzionario della Ue, anche solo un mese prima della consultazione elettorale?
Sono grato ad Assange e a Wikileaks ma non faccio lo storico. Non archivio pezzi di carta datati per raccontare la Storia con la esse maiuscola. Wikileaks mi dà una mano perché rende più chiaro quanto già si sa ma, nel cestello delle notizie, raggiunge ormai si e no il terzo o quarto posto della classifica. La mia professione mi impone di  calzare le scarpe e andare per strada,  non di passare tutto il giorno davanti allo schermo di un pc. Credo dunque che in questa chiave, la rivoluzione di Wikileaks abbia i suoi limiti. Limiti che un paio di buone scarpe non dovrebbero conoscere.