L'immagine di copertina di questonumero č l'opera «Ruler for drawing irregular lines» del duo di artisti argentini Conceptinprogress
L'immagine di copertina di questonumero č l'opera «Ruler for drawing irregular lines» del duo di artisti argentini Conceptinprogress

Risorgimento dell’opinione pubblica
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Alla fine di questo primo decennio del XXI secolo ho visto fiorire la parola Rivoluzione sulle bocche dei tanti ragazzi in piazza. Ho visto postare migliaia di volte la celebre ultima intervista di Mario Monicelli ad Annozero sui profili Facebook di tutti quei giovani che non frequentano i collettivi, che non sono “militanti” e tanto meno “militari”. Ho scoperto che esistono le figure dei book blok. Tutto questo mi ha fatto tornare in mente una poesia di Bertolt Brecht, composta a metà degli anni Trenta, quando esiliato dal suo paese scriveva sugli stessi quaderni che pochi mesi più tardi avrebbero raccolto i versi sulla morte dell’amico Walter Benjamin che terminavano così: «Il nemico che ti cacciava via dai tuoi libri / non si lascia stancare da gente come noi».  E’ una frase che coniugata al presente, con tutte le implicazioni del passato fa tremare. Ma la poesia che ho in mente è un’altra e si intitola “Nei tempi bui”. In questo brevissimo testo Brecht pensa ai posteri che si sarebbero voltati indietro a guardare i tempi bui di una certa generazione e indica con chiarezza quale  domanda essi si sarebbero posti, ossia: «Perché i loro poeti hanno taciuto?». Eh già. Ecco a cosa serve la poesia. Quella che i nostri attuali ministri definiscono “a basso contenuto alimentare”. Serve a far capire per cosa si lotta e perché si deve continuare a lottare. E’ per questo che la voce dei poeti di questi tempi risuona forte nelle piazze delle città e nelle contrade digitali. La poesia non mente. E’ la parola limpida che spicca nell’affabulatoria mistificazione che sgorga a getto continuo da ogni bocca di fuoco dell’informazione televisiva e del circo degli onorevoli. Abbiamo registrato in passato come i giovani italiani abbiano progressivamente smesso di credere a qualunque sirena politica. Oggi registriamo un dato più interessante. I giovani escono dal loro vuoto identitario e cercano una voce in cui credere. La trovano nella poesia. Dove la parola è pura, non è compromessa. Non ci sono più bandiere di partito, bandiere rosse o bandiere nere in piazza, né tantomeno bandiere bianche per fortuna. Ci sono striscioni che citano i poeti. Ci sono scudi con su scritto «Moby Dick di Herman Melville» opposti a scudi con su scritto «Polizia».

L’ultimo dei loro poeti, Mario Monicelli, gli ha messo in bocca una parola difficile: «Rivoluzione», una parola che non piace a nessuno, né alla decadente destra internazionale che è ormai sinonimo solo di conservazione dei privilegi di classe, né tantomeno alle sinistre parlamentari la cui radice rivoluzionaria è diventata eredità troppo scomoda che li atterrisce, li spaventa, perché hanno smesso da troppo tempo di comprenderla. Le sinistre parlamentari (di quelle extra parlamentari è finanche meglio tacere), si fanno un’idea del mondo leggendo i giornali o tutt’al più «guardando Happy Days», come diceva Moretti nel suo film Aprile. I giornali (i loro, come quelli degli altri) gli dicono che Rivoluzione è una parola che si associa alle sommosse, alle Br, al bolscevismo criminale. Happy Days, che imperversava sui televisori della Fgci nei pomeriggi degli anni ’70, gli dice ancora oggi che il modello culturale di riferimento è quello della famiglia americana col garage e il vialetto. I giovani invece leggono i poeti. Lo hanno fatto a scuola. Lo fanno all’università. Da queste due diverse letture si delinea una differenza sostanziale a livello semantico per quel che riguarda la parola Rivoluzione, perché nei libri di poesia questo vocabolo sto scritto nell’altezza degli spiriti ed è qualcosa che ha che fare prima di tutto col cambiare sé stessi e il proprio sguardo. Pensiamo alla famosa «Divina Commedia che non si mangia». La rivoluzione che vi si racconta è quella del pellegrino che amplia la sua comprensione attraverso la guida di spiriti saggi, uno dei quali, forse il più importante, è appunto un poeta, Virgilio. E a pensarci con gli occhi di questi giorni si fa una certa fatica a distinguere un giovane Dante Alighieri dal ragazzo che avanza dietro lo scudo di polistirolo con su scritto «Eneide». O invece pensiamo che quest’ultimo sia un terrorista? O non ci sembra invece più simile a Jack Kerouac, alla sua figura fragile esposta ai quattro venti di una Rivoluzione culturale che appunto, mentre veniva coniato lo stereotipo di concentramento delle casette di Happy Days, apriva tutte le finestre a oriente e occidente facendone vie di fuga per non trovarsi al capolinea, per avere ancora strada davanti a sé, per poter ancora sognare mondi diversi, per portare il mondo altrove da quel soffocamento maccartiano. Rileggiamoci Howl di Ginsberg o anche America. Eccola la Rivoluzione che nessuno, ad eccezione dei ragazzi, capisce più.

«Carl Solomon! Sono con te a Rockland dove sei più matto di me. Sono con te a Rockland dove certo ti senti molto strano. [...] Sono con te a Rockland dove le tue condizioni si sono aggravate e se ne parla alla radio. Sono con te a Rockland dove in camicia di forza gridi che stai perdendo la partita al vero ping pong dell’abisso». Così attacca Ginsberg ad un certo punto del suo Urlo. Ma fuori dalla biografia chi è Carl Solomon se non ognuno di quegli studenti che si sentono molto strani, a cui si aggravano le condizioni e che, con le mani legate, stanno perdendo la partita al vero ping pong della vita? E questo paese è la loro Rockland, un manicomio. Così si capisce subito che questa Rivoluzione di poesia è quella giusta la perché è fatta di parole, di dialogo e ostinazione, come quella con cui Franco Basaglia, poeta anche lui a suo modo, vinse un’altro dei tanti stereotipi di concentramento, un’altra Rockland. Sì, perché anche quella a cui stiamo assistendo è una Rivoluzione che sembra voler abbattere le pareti da dentro. Una di quelle che se mantengono la loro temperatura sono destinate alla certa vittoria nel lungo periodo. Perché stavolta non è una Rivoluzione di eserciti, di gruppi, di collettivi che parlano male e pensano peggio. E’ una Rivoluzione di individui. La differenza la si vede da un dato semplicissimo. La mancanza di parole “d’ordine”, di segni d’appartenenza.
La vera differenza di questa rivoluzione sta nella differenza che c’è fra il concetto di intimo e il concetto di pubblico. In passato per essere rivoluzionari bisognava andare alle riunioni di collettivo, entrare in un circolo o anche semplicemente in un sito a cercarsi le informazioni. La rivoluzione era uno sforzo attivo, uno sforzo per fisici allenati. Oggi invece quello che sembra cambiare la prospettiva, specie dopo trent’anni di atrofia, è la riconversione ad una rivoluzione non più muscolare, ma endemica, ad uno sforzo passivo, ma costante, come quello del sangue. Protagonisti di questo nuovo scenario sono i social network che mettono in continua relazione con le opinioni degli amici, espongono ad un confronto continuo, aumentando la consapevolezza, creando dei forum permanenti. Portano le idee e le loro implicazioni nella nostra dimensione intima. Pagine Facebook di liceali si riempiono allora, oltre che di mille pensieri personali, anche di articoli di giornale (che nessuno prima leggeva più) selezionati e di commenti che rovesciano l’opinione e l’analizzano provocando un’immediata attivazione dell’orientamento e della bussola del pensiero. E’ una mutazione a bassa temperatura. Con pochissime fiammate, forse irrilevanti, ma con una crescita costante.
Ecco cosa sta succedendo in sintesi. La rete con la sua democrazia dei contenuti, la sua reale selezione diretta fatta dal basso, la sua facilità di accesso alle fonti, la sua logica di libera conoscenza, da Wikileaks ai video degli scontri di piazza postati su youtube in tempo reale, sta ristrutturando l’opinione pubblica. La voglia di conoscere sta crescendo. L’impressione, giorno dopo giorno è che più la marcia va avanti più si allarga la distanza fra la società reale e i suoi rappresentanti. E quel che sembra evidente è che chi cerca di sapere sempre la verità dev’essere il primo ad accettare il rischio che il mondo possa crollare.