La locandina del film
La locandina del film
Luca Zingaretti nella parte di Francesco Crispi
Luca Zingaretti nella parte di Francesco Crispi

Anno 3 Numero 01 Del 01 - 01 - 2011
L'ultima scena del film di Mario Martone
Una distanza di 150 anni (luce) fra il palazzo e la strada

Attilio Scarpellini
 

Nell’ultima scena del film di Mario Martone  Noi Credevamo, un uomo sale le ampie scale di un sontuoso palazzo che è la sede del Parlamento unitario. Domenico, il patriota interpretato da Luigi Lo Cascio, va a trovare un amico a cui chiedere aiuto: la nuova Italia sabauda e borghese per cui malgrado tutto ha combattuto lo ha emarginato come un sovversivo per la sua irriducibile fedeltà agli ideali repubblicani. Giunto in un grande atrio, Domenico socchiude la porta di un palchetto e da quello spiraglio si intravede la sagoma di un oratore che conciona da solo un’aula vuota. L’oratore è Francesco Crispi (Luca Zingaretti) e in quel momento sta elaborando da virtuoso uno dei passaggi chiave della propria biografia politica, sta dicendo – come un attore che prova la parte – che fin dalla sua militanza garibaldina, cioè da repubblicano egli era già un convinto monarchico, più monarchico dei veri monarchici – poche parole colte nell’irrealtà di un momento straniato, una sorta di strappo nella temperie realistica del film, un soprassalto visionario che potrebbe essere il frutto di un’allucinazione (un’allucinazione “ideologica”) del protagonista, una sequenza, anche, che guarda esplicitamente al teatro da cui Martone viene, e che, in questo come in altri passi del suo film, non dimentica. Eppure è questa emulsione a fissare e a trasmettere l’essenza di una pratica che diventerà proverbiale nella storia politica della democrazia italiana, il cosiddetto trasformismo. Di più, dietro la porta in cui si svolge questo misterioso “a parte”, presumibilmente destinato a proseguire dopo che Domenico l’avrà accostata, si celebra in segreto l’epifania di un potere solitario, autoreferenziale che, scavalcando apparentemente la storia, si proietta direttamente sui nostri giorni, fino al punto di sottolineare la qualità visiva del suo statuto, l’idea di una spettacolarità celibe, narcisistica che, nel momento di rappresentarsi, fa rimbombare il suo cuore vuoto: uno sguardo indiscreto, come quello di Penteo nelle Baccanti (ironia della sorte, un personaggio che Lo Cascio ha interpretato a teatro nel suo La caccia), rivela, in un istante glaciale, la natura letteralmente oscena del potere.


Ma la storia, appunto, è solo in apparenza “scavalcata” dalla profezia: la figura dell’oratore che parla in un’aula vuota è un’accelerazione simbolica che si porta appresso un secolo e più di relazioni asimmetriche tra rappresentanti e rappresentati, tra elites e popolo. E sono le stesse relazioni che l’epopea martoniana ha illuminato anche negli angoli più riposti e politicamente imbarazzanti del movimento risorgimentale, senza risparmiare alcun mito - a cominciare da quello, settario e inconcludente, dell’anima cospiratoria e terroristica incarnata dal Giuseppe Mazzini che Toni Servillo appunta sullo schermo con una forza icastica difficilmente replicabile in futuro. E’ che in questa sequenza breve, conchiusa in un’intermittenza da sogno, il passato e il futuro si urtano, le immagini del film si ricapitolano in una vibrazione plurima. Ricordiamo che  Crispi potrebbe essere stato il quarto uomo dell’attentato di Felice Orsini contro Napoleone III. Ma nel suo discorso solitario c’è anche un riflesso dell’aula “sorda e grigia” di mussoliniana memoria o, più vicino a noi, di quella separatezza del politico che comunica attraverso le videoregistrazioni, imponendo la propria icona. Il Palazzo è un teatro (il teatrino della politica), ma è un teatro senza pubblico. Domenico accosta delicatamente la porta del palco e, tornando sui suoi passi, si imbatte in una cappelliera piena di cilindri, tutti serici e neri, tutti uguali: e qui il film tocca un estremo di cupezza in cui tutta la sua luce si spegne – la sua luce più tardo-ottocentesca che ottocentesca, più vicina a Segantini e a Fattori che a Hayez e a Induno, la luce delle notti di sbarco in cui la luna brilla sul mare del Cilento, o quella dei falò goyeschi dei garibaldini in Aspromonte, quando il Generale appare, ed è la sua unica epifania, leggendaria ombra in controluce sulla cima di un costone salutata in basso dalle urla e dagli applausi delle camice rosse  (proprio come, a forza di sovrumani colpi di scena, appare e scompare nelle pagine di quel mitografo dell’impresa dei Mille che è Giuseppe Cesare Abba: forza numinosa, ectoplasma dell’immaginario popolare che le donne di Palermo accostano a Santa Rosalia…). Nel gelo scuro di questa ultima scena, in quel brivido di seta dei cappelli rivestiti – tutti neri e tutti uguali – il racconto di Noi Credevamo viene risucchiato, tutte le sue oscillazioni, i suoi dubbi, persino la sua grandeur visiva, vengono bruscamente sbaragliati da un fondamentale gesto di sfiducia che, squarciando il sipario del melodramma, esibisce la radicale desolazione del paesaggio dell’attuale post-democrazia italiana.

 

E’ quasi inutile aggiungere che non la lettera, ma il senso di questa scena, l’avremmo ritrovato, moltiplicato per centomila, nella manifestazione del 14 dicembre 2010, quando l’intera città di Roma è stata trasformata in una rappresentazione visiva di quella ferita centenaria, di quella frattura – tra un’aula svuotata presa in ostaggio da un potere autoreferenziale, interessato soltanto alla conservazione di se stesso, e un popolo tradito, respinto ai margini di qualsivoglia comunicazione. E’ per la democrazia – contro ogni apparenza contraria – che gli studenti si sono ribellati dopo aver udito la notizia che la democrazia era morta, uccisa da una manciata di voti comprati. C’è un passato (un passato oppresso, avrebbe detto Walter Benjamin) che preme nel cuore esploso di questo presente e forse per questo, per un certo numero di giorni, il tempo è sembrato insorgere e rivoltarsi su se stesso, confondendo le immagini più antiche alle più nuove.