Un'immagine dello spettacolo (ph. ENDeDNA)
Un'immagine dello spettacolo (ph. ENDeDNA)
Un'altra immagine di «Alexis. Una tragedia greca» (ph. Valentina Bianchi)
Un'altra immagine di «Alexis. Una tragedia greca» (ph. Valentina Bianchi)

Il miserabile privilegio che ci fa sentire diversi
Motus: di Antigone e di altre rivolte

Massimo Marino
 
«P.S. Non gettateci altri lacrimogeni. Noi stiamo già piangendo».

Così si concludeva una lettera di Daniela Nicolò di Motus a una tavola rotonda intitolata Linguaggi di realtà. Lei ed Enrico Casagrande, i fondatori di Motus, avrebbero dovuto esserci, quel giorno al Cimes del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, a parlare del loro ultimo progetto, un viaggio dentro Antigone oggi. E con una lunga lettera si scusavano di non esserci. Avevano preferito, Daniela e Silvia Calderoni - l’interprete di Antigone, la controfigura delle rabbie di oggi dell’eroina - andare alla manifestazione studentesca di Roma. Era il 14 dicembre. Potremmo chiamare questa testimonianza l’ultima (provvisoria) tappa di un lungo viaggio teatrale che aveva come punti da ricongiungere su una ideale mappa Antigone ossia la ribellione e la realtà e i linguaggi per penetrarla oggi.

 

Era iniziato con tre “contest”, dialoghi a due, intensi, a partire dal materiale dell’antica tragedia di Sofocle, rivissuta attraverso Brecht e il Living Theatre, fino alle ansie di ribellione di oggi. Motus, fedele al proprio nome, non compone spettacoli ma avvia progetti, “movimenti”, cercando sempre più di scalfire il muro della realtà. Let the Sunshine In era il primo contest, un confronto tra i fratelli: Antigone e Polinice, Eteocle e Polinice, Ismene e Antigone, a partire da Sofocle, oltre Sofocle, fin dentro le autobiografie degli interpreti, giovani di oggi.

 

Il secondo “atto” era Too Late!, uno scontro tra Silvia/Antigone/Emone e Vladimir/Creonte, i disubbidienti e il potere, i padri che agiscono per il bene dei figli. Intanto in Greci infuriavano gli scontri, la ribellione degli studenti e non solo. E qui possiamo, accademicamente, porre la questione se gli artisti fiutano l’aria del tempo, se prevedono, se, semplicemente, vivono così intensamente il presente da coglierne movimenti che agli altri sono ancora poco espliciti.

 

Motus già con X (ics). Racconti crudeli della giovinezza aveva affondato lo sguardo nella solitudine delle periferie, dei centri commerciali, sui muri grigi che sbarrano il futuro. Là la voglia di emergere dal vuoto diventava ritmo pulsante riassorbito dall’assenza, da movimenti di abitudine che spalancavano l’abisso tra rassegnazione e impotenza. Là la salvezza consisteva in uno sguardo, in una danza, in una storia, in una carezza, da portare vicino a sé.

 

Con Antigone, a poco a poco, come in un film muto, la parola “basta!” diventa sempre più grande, fino a invadere lo schermo, fino a debordarne, fino a rivolgere la storia del nuovo alle origini, a quegli anni sessanta-settanta quando si provò a rompere i recinti tra arte, vita, politica.

Il terzo contest si chiama Iovadovia, “viaggio verso la morte-camera oscura per Antigone e l’indistinto che attende un Tiresia-donna, dopo aver lasciato il cospetto di Creonte, accusandolo di essere ‘who cause the city’s sickness’”, la malattia, la maledizione della città (cito dal libro scritto dalla compagnia nel 2010 per NdA press, Motus 991_011, una raccolta di interventi). Qui, guardando verso il buio, il baratro, Silvia nomina Alexis, il ragazzo quindicenne ucciso durante gli scontri nel quartiere greco di Exarchia, nel dicembre 2008.

I tempi sono maturi. Le prossima tappa sarà un festival di Santarcangelo (diretto da Enrico Casagrande) pieno di interrogativi sui linguaggi della realtà. Li riassume Daniela Nicolò, nella lettera citata: “Come affrontare la realtà? In quali modi costruire opere che sappiano rispondere alla velocità, alla ferocia, al consumo dei tempi in cui viviamo? Come può il teatro farsi partitura di emergenza, risposta etico-estetica ai giorni del presente? Come sottrarsi alle logiche insidiose delle mode, della comunicazione, dello spettacolo? Quale tipo di relazione innescare tra pubblico e scena? Che quesiti porre ai meccanismi della rappresentazione, alle logiche dello spettacolo dal vivo, al ruolo dello spettatore? Come dare nuova forza agli spazi pubblici?”.

Vengono invitati artisti come gli anglo-tedeschi Gob Squad, come il catalano Roger Bernart, come gli israeliani Pubblic Movement che aprono gli spettacoli all’intervento del pubblico, a una certa alea, a uno spirito di interazione quasi da social network come nota Oliviero Ponte di Pino su “Ateatro”. Ma tutti gli spettacoli scelti mettono in discussione il linguaggio teatrale e il linguaggio tout court, in un tentativo di ridefinire gli strumenti per percepire, analizzare, raccontare la realtà (e forse, provare nuovamente a mutarla).

Il colore scelto è il rosso. Casagrande così lo spiega, nello scritto di introduzione al festival: «Vedo Santarcangelo 40 come un’esplosione di rosso. Un colore dimenticato dalla politica e dalla moda. Forse perché troppo appariscente? O troppo scomodo? È banalmente il colore della passione, il colore del sangue, il colore della rivolta: lo scrivo con uno sfrontato senso nostalgico con cui convivo senza vergogna. Vedo i giovani greci affrontare un armatissimo corpo di polizia con delle semplici bandiere rosse e mi commuovo. Allora immagino l’insieme degli artisti come detonatori potenti che, con pochi mezzi e affilate parole, fronteggiano un apparato istituzionale barricato in se stesso, accecato dalla propria bramosia di potere. Creano varchi e, a volte, trovano anche qualche alleato sapiente… Mi nutro di queste immagini per resistere alla tentazione dell’assopimento, per continuare a credere nella potenza del rischio».

 

E il passo successivo è proprio dentro quella rivolta greca, fino al cuore della necessità di rivolta. A ottobre debutta per Vie Scena Contemporanea Festival al teatro Storchi di Modena Alexis. Una tragedia greca. Qui il salto rispetto ai contest è evidente: dalla scena volutamente spoglia, essenziale degli atti precedenti, a un grande palcoscenico, con quattro attori, proiezioni mobili di video e invasioni di tutta la platea. La storia dell’eroina antica si proietta sulla protagonista, Silvia Calderoni, ormai un’icona della compagnia e del nuovo teatro, alta, bionda cenere, androgina, apparentemente fragile, carica di un’energia che incarna rabbie e dolcezze della gioventù più inquieta. Lo spettacolo racconta un viaggio estivo di Motus con Silvia, attraverso l’occhio di Silvia, tra le pietre dell’antica Ellade, che si trasforma in un’immersione negli scontri della Grecia odierna, tra la devastante crisi economica, gli anarchici del quartiere Exarchia di Atene, ribellioni, graffiti murali, repressioni violente. «Antigone c’è», potrebbe recitare uno slogan scritto su uno di quei palazzoni, tra disegni di giovani che scagliano fuoco e altri segni “contro”.

Silvia, in movimento incessante, fa oscillare un proiettore che mostra sulla scena immagini documentarie che arricchiscono uno spettacolo dove Polinice diventa insieme il fratello aggressore della patria di Sofocle, il generale fuggiasco da una disastrosa guerra di rapina di Brecht, l’anarchico quindicenne di Exarchia che si scaglia insieme con tanti altri giovani contro uno Stato Creonte. Alexis è proprio lui, il giovanissimo ateniese assassinato dalla polizia nel dicembre 2008. Lo spettacolo è diario, estratti di realtà, accelerazione visiva, ideologica, esplorazione di insofferenze. La necessità di una rivolta diventa perfino compiaciuto estetismo, con generici, proclami sulla ribellione necessaria che contengono ogni tanto lo stile patinato dei vecchi Motus, quello che faceva il verso con cipiglio post-moderno alla bidimensionalità della nostra vita da teleschermo o da rivista glamour.

Ma a un certo punto, da interviste a giovani di Exarchia, balena il vuoto sociale, umano, contro cui Antigone oggi reagisce, insieme alla domanda incalzante, personale, su cosa il teatro possa fare, aprendosi, chiudendosi nelle prigioni dell’arte, della differenza, gridando contro un futuro angosciante. Il bagliore accecante di una scintilla di impotenza e di dolore illumina di sbieco ogni rassicurante manierismo. La scena si accende. I racconti assumono maggiore spessore. Alexandra, una ragazza greca entrata nella compagnia durante quel viaggio, porta una testimonianza personale, una presenza. La scena del teatro all’italiana viene recintata con nastri biancorossi di lavori in corso. Silvia e gli attori fanno l’atto di scagliare pietre contro un fondale nebbioso…

 

Lo spettacolo, racconta Daniela Nicolò, cambia a ogni replica, vibrando con quello che sta succedendo intorno. La rivolta non è solo in Grecia: la domanda ai giorni tutti uguali, senza prospettive, nasce anche da noi in forma di movimenti.

Daniela non viene a quell’incontro sui linguaggi di realtà. Manda il suo intervento, mentre sfila con gli studenti romani, dopo aver invaso qualche giorno prima con i giovani universitari di Bologna l’autostrada, l’A14 (“forse eravamo i più vecchi… ma non ce ne vergognavamo…”).

«Scusateci innanzitutto, perché oggi abbiamo deciso di non essere qui, nonostante l’impegno preso e la pertinenza di questo importante incontro con il nostro percorso artistico del momento… ma veramente in noi sta cambiando qualcosa, le parole che marchiano i nostri ultimi spettacoli non sono più parole della durata effimera del tempo di rappresentazione, ma continuano a lavorare dentro, a spostare indefessamente la prospettiva, il punto di vista, l’attitudine al fare. Con quest’ultimo progetto la riflessione sulla rappresentazione e il nostro stesso vivere, si sono così indissolubilmente intrecciati che non ne distinguiamo i confini… e questa sensazione ci riempie di gioia. E’ vero, finalmente non c’è più sipario, non andiamo in sala prove e lasciamo fuori pensieri, preoccupazioni, ricordi, sogni, ma tutto entra e convive e quando ne usciamo, come dopo uno spettacolo, è come se le parole dette e le azioni fatte non siano più ‘testo’ ma qualcosa che ti porti dietro come ‘impegno preso’. 

Alexis termina con una semplice parola: ‘Fare’. (All’esatto opposto del fare berlusconiano sia ben chiaro!) E questa parola rimane: e questa parola ci spinge oggi a essere a Roma, alla manifestazione (io e Silvia, mentre Enrico è a un convegno a Barcellona da ieri… molto dispiaciuto per essere lontano in questa giornata che in qualche modo è cruciale, per l’Italia).

Ci andiamo ‘sole’, non come artiste-teatranti, studenti, precari… nessuna di queste categorie o forse tutte, non importa. Applicando queste categorie ci vogliono far pagare la crisi, tenendoci divisi ognuno a difendere ottusamente il proprio orticello, per scongiurare il rischio di un intera prateria in fiamme. Quale differenza passa tra lo studente declassato a mero ingranaggio del sistema produttivo e il lavoratore precario del teatro o del cinema, tra l’esubero cinquantenne abbandonato al proprio destino dal dinamismo capitalista e il clandestino che vende le proprie braccia ai padroncini lungo le statali? Qual è il miserabile privilegio che ci fa sentire diversi? Vogliamo essere lì, soli, con tanti. Perché siamo stanchi di accontentarci di chiedere che ci siano concesse le briciole per sopravvivere in questo panorama votato al collasso, e semplicemente cominciare a vivere tutti i giorni in un modo radicalmente diverso.

Quando ascolterete questo intervento pensateci lì. E fate entrare un po’ del caos di voci e corpi che avremo a fianco, nell’aula del Dams, perché tutto questo è entrato a far parte del nostro percorso artistico oramai. E non sappiamo dove ci porterà».

Riuscirà il teatro a fare entrare un po’ del caos di voci e di corpi nelle sue mura sempre più sterili e (perciò) spopolate? Si rinnoverà, senza retorica? Riuscirà ad aprirsi, riscriversi e a rilanciare con le armi dell’immaginario, come in altri tempi e momenti ha fatto? Questa credo sia una bella sfida. Per la sopravvivenza.