La locandina del film di Jeunet
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La mappa degli utenti attivi di Facebook
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Esposizione ed assuefazione
Una prospettiva rovesciata partendo dal film «L’esplosivo piano di Brazil»

Luigi Coluccio
 
1921, The Paleface. Un entomologo penetra in una riserva indiana con lo scopo di raccogliere campioni scientifici e, mentre cerca di scappare dai nativi decisi ad ucciderlo in quanto primo bianco entrato nel loro territorio, per un difetto di realtà degli stessi indiani viene scambiato per un dio. In seguito ad una serie di fortunati eventi sconfiggerà degli affaristi decisi ad impadronirsi del petrolio presente su quelle terre – di più: finirà per sposare una squaw, suggellando così l’abbandono del suo precedente essere di washichu.

2010, L’esplosivo piano di Brazil. Un cittadino qualunque, cacciato dal suo appartamento e dal lavoro dopo un incidente in seguito al quale si ritrova con un proiettile inoperabile in testa, vive per strada finché non entra a far parte di una famiglia di senzatetto di stanza in una discarica, aiutato dai quali abbatterà le aziende produttrici della mina che ha ucciso il padre decenni prima e della pallottola conficcata nel suo cranio.

 

Non è eretico, e sopratutto vano, accostare Buster Keaton e Jean-Pierre Jeunet; non se bilanciamo, misuriamo ed annotiamo questa connessione sotto l’egida dell’estetica. Le grammatiche cinematografiche da cui partono e i mondi finzionali a cui approdano entrambi i cineasti sono rifrangenti, non combaciano perfettamente (in fondo, come potrebbero?) ma vengono mossi da vettori di segno identico. Keaton, nei 33 minuti di The Paleface, organizza una materia filmica che nel suo farsi commedia slapstick rivela grumi e resistenze inaspettate: il binomio scienza-natura, la critica al capitalismo annichilatore, il respingimento delle vestigia della società occidentale. Il tutto nascosto all’interno di un discorso estetico perfettamente consapevole del linguaggio articolato. Jeunet, uno degli occhi più virtuosi di questi ultimi due decenni, con una tavolozza che va dal favolistico La città dei bambini perduti alla fantascienza di Alien: la clonazione, percorre lo stesso periglioso sentiero. Come Keaton, Jeunet schiera un ferreo e consapevole registro cinematografico per orchestrare una vicenda simil-favolistica in cui, ancora una volta, è quello che sta ai margini, ai bordi di questo dominio estetico, a dare linfa perturbante al film. Se in The Paleface avevamo la mostrazione ancora in diretta di quanto stava avvenendo a conclusione modernista – il petrolio – del Genocidio Americano, in L’esplosivo piano di Brazil prendono corpo le non-esistenze di alcuni Nativi Occidentali oramai corpi estranei della società capitalistica contemporanea: hobos, schnorrer, clochard, cioè semplici ammassi di vestiti, cianfrusaglie, carrelli, sporcizia, che attraversano orizzontalmente il profilo delle città più ricche del mondo, ricordandoci che gli scenari metropolitani non sono rigide scacchiere ma flussi e dinamiche del Potere, delle sue manifestazioni e dei suoi conflitti – l’unico luogo degli Stati Uniti definito dagli stessi standard del Terzo Mondo è Skid Row, un’area popolata unicamente da vagabondi e senzatetto, situata proprio accanto al centro iper-moderno di Los Angeles, Downtown; e così via per le altre, immense, zone povere delle più grandi e contemporanee città degli States, Pioneer Square a Seattle, Tenderloin District a San Francisco, Stingaree a San Diego. Ammantato da un’aurea europea e da una poetica à la Jules Verne, il film di Jeunet opera un montaggio parallelo vertiginoso e profondamente politico, accostando nelle esistenze, nei lutti e nelle conseguenze questi fantasmi occidentali con i mendicanti di Lahore, i senzatetto di Nairobi, i reietti di Calcutta. E lo fa tramite un procedimento eziologico forse superficiale ma necessario, presentando come causa diretta della riduzione in povertà e dell’abbrutimento di Bazil le stesse multinazionali che fino ad adesso operavano in modo manifesto indisturbate lacerazioni ecologiche, sociali, culturali solo nel Terzo Mondo (la Monsanto in India, l’Unilever in Colombia…).

 

Una rifrazione identitaria abbraccia dunque il centro di Parigi e il cuore dell’Africa, nelle cause, nei protagonisti, nelle ricadute. E nel riscatto. O, perlomeno, nelle dinamiche di opposizione al Sistema Occidentale. Il gesto conclusivo di Bazil nella sua corsa vendicativa è talmente ovvio da sembrare un coup de théâtre spiazzante e quantomeno significativo: caricare su Youtube il video in cui la coppia di produttori di armi, grazie ad un abile stratagemma (gli fanno credere di esser stati portati in Africa, pronti per venire giustiziati da uno stuolo di vedove e madri che hanno perso i loro cari per via delle armi costruite e vendute dai due), confessano i loro crimini. Nulla, insomma, di più acquisito e negoziato da tempo. Non, però, all’interno di un regime fortemente finzionale come il cinema, che idealmente contrasta, per storia, per statuto, per linguaggio, con le immagini di breaking news televisive e internettiane di esecuzioni, fatwa, annunci omicidi (e l’accento va, di nuovo, posto su una contrapposizione estetica e non, di certo, etica). Quello che ci interessa maggiormente è lo scandaloso gesto compiuto da Bazil, che sradica dal suo effimero luogo, riposizionandola, disinnescandola, e soprattutto imponendola, una delle pietre angolari dell’architettura di internet: il bottone/termine share. Condividere sui nostri wall di Myspace, Twitter, Facebook, non è altro che uno dei gesti più importanti propri dell’homo communicans, un imbuto fattuale nel quale transita la creazione dei nuovi regimi identitari, dei nuovi campi d’appartenenza. Tale operazione è centrale nella contemporaneità: cosa altro sono i social network se non la tecno-realizzazione del concetto di extimité, quel neologismo tutto lacaniano che indica la manifestazione nell’esteriorità di ciò che è più intimo? I termini di accostamento ad internet sono dunque cambiati, poiché Second Life e i twitt giornalieri non sono virtualità che portano ad una sterile contrapposizione tra Realtà e Fantasia (come da sempre si paventa con scenari da apocalisse cyberpunk), quanto registrazioni di un continuo imprinting privato che viene senza soluzione di continuità globalizzato e spettacolarizzato. Ecco perché, dunque, veder imposto dallo schermo del cinema un nostro finzionale click, una nostra pirata condivisione, turba e disequilibria.

Pubblico e privato, insomma, non sono mai stati così vicini. Post su come si sia trascorso il giorno del Ringraziamento scalzano sulla nostra bacheca link agli articoli del ‹‹Guardian›› che commentano le infiltrazioni della Shell tra i più alti ranghi del governo nigeriano. Ma cosa rimane, dunque, di politico, qui inteso come spazio di negoziazione e realizzazione tra pubblico e privato, con la dominante contemporanea della web-eximité? Ben poco, sia per Bazil, come per le popolazioni del Terzo Mondo. Il collasso del pubblico nel privato ha portato ad un disinnescamento del conflitto, ad una narcotizzazione delle dinamiche di opposizione. Il video del protagonista del film di Jeunet, i messaggi di Bin Laden, i documenti di WikiLeaks, le immagini di Google Earth, non sono altro che altri, semplici, byte da condividere, altri post che scalzano, senza soluzione di continuità, ancora e ancora altri post. Accettare, dunque, sul proprio profilo Facebook il filmato di due produttori di armi che confessano i loro crimini, è, semplicemente, condividere verso altri utenti tali informazioni. Il conflitto si ferma qui. Perché è totalmente indifferente il segno dell’azione, repressiva o accogliente, che ne dovrà seguire: l’orizzonte della nostra azione è unicamente la condivisione, persino con il Sistema. Sistema che seguirà la consueta prassi: il soggetto preso in esame – il terrorismo, uno spettacolo sull’aborto, la class action – verrà disinnescato dei suoi elementi disturbanti ed assorbito. E questo toccherà anche alla coppia di produttori di armi del film: le loro multinazionali saranno o smembrate o nazionalizzate o temporaneamente chiuse, tagliando dunque la testa (l’elemento disturbante, i due dirigenti finiti su Youtube, comunque scappati all’estero) ma tenendo sano il corpo. Il montaggio parallelo adottato da Jeunet non si limita dunque ad accostare i reietti di Parigi e i poveri di Hong Kong solo nella cause (le multinazionali), ma anche e soprattutto nelle ricadute: i video messi online da Al-Qaeda e Bazil vivono dello stesso segno, attuano la stessa strategia di condivisione al fine di provocare l’intervento diretto – questo si che di segno opposto – del Sistema.

 

Post-scriptum

Forse non si tratta, in definitiva, della scomparsa degli interstizi di contrapposizione tra alterità e Sistema. Forse quello che è stato irrimediabilmente intaccato sono le pratiche di questa opposizione. Il collasso del pubblico nel privato è abbastanza acquisito, ma come contrastare, dunque, ciò? Quello che registriamo è lo scacco che il Sistema segna ancora una volta. Leggerezza vs pesantezza, velocità vs lentezza, spontaneità vs artificiosità: questi erano gli aggettivi che scandivano le azioni dei due termini in opposizione, alterità vs Sistema, privato vs pubblico. Adesso non è più così. A partire dagli anni ‘70, gli anni dei primi passi del “toyotismo”, dello spostamento delle fabbriche dall’Occidente verso l’Asia e il Sud America, del superamento del sistema fordista, il Sistema sembra aver ricalibrato e snellito tutte le filiere che lo compongono. I siti nucleari iraniani non si abbattono con i bombardamenti ma con il sabotaggio grazie a delle pennette usb con dentro dei virus; i profughi iraniani che vogliono entrare in Arabia Saudita non si bloccano con pattuglie e muri ma con satelliti e sensori di movimento; le ricognizioni sulle montagne dell’Afghanistan non si fanno con i caccia ma con i droni comandati al sicuro dalla base; WikiLeakes non si ferma arrestando Julian Assange ma facendo bloccare i servizi erogati da Amazon e PayPal; l’India vince le contese territoriali con la Cina non occupando militarmente l’ Arunachal Pradesh ma imponendo a Google Earth la sua mappa del territorio … Le manifestazioni degli studenti il 14 dicembre a Roma, e le reazioni delle nostre forze dell’ordine, sembrano appartenere ad un passato lontano ed arcaico, dove il conflitto era analogico, spaziale, corporale. Trovare nuove forme di opposizione è necessario in uno scenario contemporaneo dove società e tecnologia totalizzanti non lasciano spazio alle alterità. E se le dinamiche del secolo scorso (Indymedia su tutte) erano esclusive e miravano ad un privato esoterico, nascosto ed impenetrabile per i corpi estranei, le nuove forme di lotta devono per forza passare per l’inclusione e lo sfruttamento delle potenzialità della rete – elemento che è presente nella natura e nella ragion d’essere stessa del web: in fin dei conti internet è stato realizzato negli anni ’60 dalla DARPA per l’esercito americano…

Il prezzo da pagare, altrimenti, è la definitiva scomparsa di ogni spiraglio politico: sono già state realizzate, infatti, delle mappe del globo terrestre in base agli utenti dei vari social network e alle loro interconnessioni, e i confini di questa infosfera combaciano perfettamente con quelli geografici, poiché perfino nella sterminata Siberia o nel profondo Sahara ci sono dei puntini luminosi ad indicare profili Facebook attivi.