Ngozi Okonjo-Iweala
Ngozi Okonjo-Iweala
Copertina dell'edizione italiana del libro di Dambisa Moyo uscito per Rizzoli
Copertina dell'edizione italiana del libro di Dambisa Moyo uscito per Rizzoli

Anno 3 Numero 02 Del 01 - 02 - 2011
L'Africa rosa
Il ruolo delle donne nella rinascita del continente nero

Mariateresa Surianello
 
Che siano le donne ad alzare la voce e a indignarsi, davanti alla decadenza sociale e culturale in cui è scivolato il nostro paese, è un pensiero rincuorante. E dopo anni di silenzio c’è grande speranza di godersi il prossimo 13 febbraio le vie e le piazze italiane piene di donne che, al grido di “se non ora quando?”, non vogliamo, insieme ai nostri uomini, arretrare di un passo dalle posizioni guadagnate con anni di lotte per una emancipazione evidentemente ancora però troppo fragile. Non bastano una presidente di Confindustria e una segretaria generale della Cgil a rompere il tetto di cristallo. Del resto l’occasione per rialzare la testa non è delle più ordinarie, il teatrino messo in piedi dalle comparsate video di Berlusconi che si alternano a squallide intercettazioni telefoniche e alle memorie difensive dei legali dello stesso capo del governo forniscono elementi per una narrazione aberrante della società italiana che rimbalza sui media di tutto il mondo, collocandoci non solo per vicinanza geografica a quell’Nord-Africa che in questi stessi giorni si sta liberando degli ottuagenari presidenti. Le partite al ribasso giocate da oltre un quindicennio dal nostrano quasi ottuagenario presidente del consiglio e dalla destra italiana sul fronte esterno (vedi le sentenze di morte per migliaia di immigrati, siglate dall’accordo con Gheddafi) e interno, per smantellare lo stato sociale e una a una le regole democratiche, hanno dato i loro frutti. Ne va di conseguenza che le prime a pagare siano le fasce più deboli e tra queste le donne, in guerra come in pace.
Con la loro Carta Costituzionale calpestata, le donne italiane escono con le ossa rotte da quei “festini di Arcore”, dove il modus vivendi di un uomo disperato, con pochi anni ancora davanti a sé, si manifesta impunemente come maître à penser di giovani poco più che adolescenti. Un Timone d’Atene ancora in auge (e l’epilogo shakespeariano non tranquillizza), ossessionato e insoddisfatto dal sesso, che si costruisce con l’ausilio di servi e ruffiani uno squallido harem, manco fosse il sultano del Brunei (o suo fratello, come ne dà conto Jillian Lauren nella sua biografia Le mie notti nell’harem, appena uscita in Italia per Sperling & Kupfer). Siamo tornati indietro di secoli con un dolore grande, solo un poco lenito da sketch comici e commenti internazionali, il più innocuo e ipocrita dei quali ci conduce nel Sudafrica che tollera la poligamia del suo presidente Zuma, certo, per rispetto della tradizione della sua etnia zulu. Ma da noi l’inquilino di Palazzo Chigi non è cattolico?

Spinti sempre più ai margini dell’Europa dalle politiche berlusconiane, non solo da comportamenti immorali, ci ritroviamo con tutte e due i piedi nel Maghreb. Qui, intanto in Tunisia, Ben Alì ha mollato il potere e le donne tunisine si inventano provocazioni giocose, ma di particolare impatto sull’immaginario collettivo iconoclasta del loro paese. Nei giorni scorsi avevano minacciato su facebook di andare all’aeroporto ad accogliere in bikini il leader del partito islamico, Ennhanda (Rinascita), Rachid Gannouchi. E stanno lottando per vedersi riconoscere il ruolo che rivestono nel proprio paese anche all’estero (come scrive Franco La Cecla sul Sole 24Ore del 30 gennaio, riportando le parole di Raja El Fani, artista, figlia di uno dei fondatori del Partito Comunista Tunisino). In primis in Italia affetta da manie di grandezza nei confronti di questa regione a noi sempre più vicina. Ma non solo le nordafricane anche nell’Africa sub-sahariana, almeno nelle intenzioni, i processi di democratizzazione non prescindono dalla condizione della donna e dalla considerazione che il potere ha di essa. Si può partire – alla stregua dell’Italia – dalle “quote rosa”, previste in diversi paesi che hanno avviato, ovviamente con enormi differenze gli uni dagli altri, cambiamenti dei propri assetti socio economici. In Uganda, Sudan, Sudafrica e finanche in Rwanda le donne in parlamento sono cresciute negli ultimi dieci anni fino a sedere in un quarto dei seggi. In questo modo, anche chi è fuori dalla politica e dalle istituzioni, vedendosi rappresentata può migliorare la consapevolezza di sé, che a sua volta fa crescere la fiducia anche nelle altre donne. Ne è convinta Fari Zhou, economista e membra dello Zapu (Unione del popolo africano dello Zimbabwe), che ci spiega come le donne quando arrivano ai posti di comando danno prove esemplari. «Si pensi alla ex ministra delle finanze nigeriana, Ngozi Okonjo-Iweala – ora alla Banca Mondiale – rimasta memorabile per la sua lotta contro la corruzione. Bisogna sfatare il mito che vuole poche donne africane qualificate per assumere ruoli chiave nelle loro società. E’ solo un pregiudizio». Situazione emblematica di una transizione postcoloniale catastrofica, quella dello Zimbabwe, considerato la Svizzera africana all’epoca della segregazione razziale e si chiamava Rhodesia, il paese è allo sbaraglio a causa di Robert Mugabe, presidente dal 1987 (altro ottuagenario che fa compagnia all’egiziano Mubarak non mollando il potere). Con l’inflazione fuori controllo e l’emergenza Aids anche, scientificamente alimentata dagli stupri non denunciati di migliaia di donne, spesso tenute schiave dalle milizie delle stesso Mugabe, la vera risorsa per il cambiamento sociale sono le donne. «Una reale differenza – conclude Fari Zhou – si può avere solo quando le donne smetteranno di stare all’ombra degli uomini e inizieranno a camminare al loro fianco»

Certo le donne africane possono attuare il cambiamento all’interno, lottando contro tradizioni arcaiche che le mantengono subalterne, ma devono focalizzare il contesto e le complicità internazionali per modificare il sistema economico. Complicità che all’apparenza sono benevoli, come quelle rappresentate dagli aiuti umanitari dell’Occidente, un business di proporzioni mostruose - lo espone con grande chiarezza e semplicità Dambisa Moyo nel suo libro La carità che uccide, altra donna, questa volta dello Zambia, non allineata sugli equilibri mondiali. Considerata tra le cento persone più influenti al mondo da “Time Magazine”, Moyo ha avuto il coraggio di spiegare “come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo”, ovviamente, con dati alla mano, da economista oxfordiana, masterizzata a Harvard, qual è. Molto semplicemente, da donna africana, Dambisa si chiede come sia possibile che dopo il 1980, a fronte di una diminuzione della povertà mondiale in termini assoluti e in percentuale, quella degli abitanti dell’Africa sub-sahariana sia aumentata del 50 per cento, facendo quasi raddoppiare il numero di africani poveri, tra il 1981 e il 2002. Un dato sconcertante che, insieme al crollo dell’alfabetizzazione, alle misere condizioni sanitarie e in generale al mancato miglioramento dell’aspettativa di vita, crea una dimensione inquietante, se si pensa che in questi ultimi trent’anni gli aiuti sistematici – cioè i trasferimenti di denaro ai governi dei paesi poveri, attraverso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale - non si sono mai arrestati, senza servire alla crescita economica. Al contrario, Moyo, che distingue tra questi flussi ordinari e quelli umanitari d’emergenza e delle Ong su specifici progetti, non hanno fatto altro che alimentare la corruzione e i regimi dispotici, impedire gli investimenti e l’imprenditoria, allontanando i paesi poveri da qualsiasi tentativo di sviluppo. Una visione rivoluzionaria, che se venisse adottata metterebbe a rischio l’intero comparto degli aiuti a livello internazionale e migliaia di posti di lavoro nei paesi ricchi salterebbero. Meglio è continuare a far chiudere in un paese povero dell’Africa una piccola fabbrica di zanzariere, perché qualcuno in Occidente ha deciso di distribuirle gratis, scrive in uno dei tanti esempi Dambisa Moyo.

Ecco di queste donne vogliamo parlare, africane, europee e italiane, e di queste donne che fanno la differenza vogliamo che si parli e si scriva in giro per il mondo. Non delle giovani prostitute alla corte di pseudo imperatori italioti e decadenti. Indigniamoci ogni giorno anche dopo il 13 febbraio per l’immagine della donna italiana che viene così brutalmente artefatta. La misura è ormai colma, saremo noi a tirare un bel calcio nel didietro di Berlusconi, ce l’abbia “flaccido” o sodo, fa lo stesso. Le donne italiane hanno delle belle e forti gambe! Lasciatemelo dire, da donna.