Riccardo Muti durante l'esecuzione del bis del «Va pensiero»
Riccardo Muti durante l'esecuzione del bis del «Va pensiero»
Il pubblico in piedi mentre canta assieme al coro del teatro
Il pubblico in piedi mentre canta assieme al coro del teatro

Anno 3 Numero 03 Del 01 - 03 - 2011
O mia patria, ś bella e perduta
Riccardo Muti fa cantare il «Va pensiero» a tutto il teatro durante la prima del Nabucco

Gian Maria Tosatti
 
Non è una combinazione la prima del Nabucco, l’opera più patriottica di Verdi, in coincidenza con le celebrazioni del 150enario dell’Unità d’Italia. Una ricorrenza che fin qui era parsa piuttosto vuota, grigia, scarica addirittura di quelle tensioni fra Stato e Chiesa, verità storica e ricostruzione “politica”, che avevano caratterizzato i precedenti giubilei, quello del 1911 e quello del 1961. Con l’Italia inginocchiata dalla crisi economica e in mezzo al più cupo vuoto politico dell’intera storia unitaria, effettivamente c’è ben poco da festeggiare. Quelle bandiere che timidamente sono lasciate sventolare su qualche balcone sono guardate più con diffidenza che con orgoglio. E non c’è niente di più triste che vedere il corpicino del tricolore che pende dalle aste più come un suppliziato che come un vessillo. Perché per far sventolare una bandiera ci vuole il soffio di un popolo, non basta il ponentino romano, che al massimo la sferza, la schiaffeggia. E quell’alito di popolo, dobbiamo dirlo, in questo 2011 non lo abbiamo sentito. In televisione le trasmissioni sul Risorgimento vanno deserte, giacché il Risorgimento, è bene che si dica una volta per tutte, non è un evento della Storia, ma un sentimento e come tale può esser compreso solo da chi quel sentimento lo prova. Chi vede Traviata o Bohème palpita nel ricordo di un sentimento provato che ancora brucia come ferita mai chiusa nell’anima dello spettatore. Ma l’amor di patria, della nostra patria, l’Italia e dunque gli italiani, è spento, è stato spento, da troppo tempo. Siamo stati dissuasi dall’amare il nostro paese. Un cittadino che non ama il suo paese è un cittadino che non è disposto a sacrificarsi per esso e diventa dunque un cittadino pigro, che lascia fare. E così, da tempo ormai l’Italia è diventata cosa d’altri. I cittadini ci stanno in affitto e lasciano fare agli amministratori. Il Risorgimento è così lontano che non stupisce questo clima d’anniversario triste, quasi un anniversario di morte più che un anniversario di nascita.

Nel 1842, quando Verdi scrisse il Nabucco, non aveva la più lontana idea che quella sua opera sarebbe diventata un simbolo del Risorgimento. Ce l’aveva lì fra le mani, in partitura, eppure, per lui, il maestro, quella era solo l’opera di un riscatto personale, una speranza da rimettere agli spettatori della Scala dopo anni d’inferno, un’insuccesso mortificante, la morte della moglie e delle figlie e un vagabondare randagio per una Milano diventata per lui troppo distante. Quando il coro del «Va pensiero» deflagrò nella sala fu l’intelligenza di un popolo a capirlo. Quelle parole divennero la disciplina di un sentimento. E Verdi, che fino ad allora era stato semplice maestro di musica, divenne simbolo di uno spirito patriottico e gli vennero aperte le porte dei circoli italiani, in cui conobbe Mazzini e tanti altri che parteciparono attivamente alla causa unitaria. Verdi fu colto alla sprovvista. Le parole del «Va pensiero» erano di Solera, testardo e burbero patriota, e Verdi le musicò quasi seguendo un anelito ancora misterioso vedendole la prima volta sulla pagina del libretto. Dunque è così che andò, un patriota lanciò la provocazione, un genio la raccolse capendola forse col cuore ma non ancora con la testa, e l’intelligenza di un popolo la spiegò e la rese intellegibile a tutti.

E’ più o meno quel che è accaduto alla prima del 12 marzo del Nabucco diretto da Riccardo Muti al Teatro Costanzi di Roma. Quell’opera poteva essere uno dei tanti feticci celebrativi e invece alla fine dell’esecuzione del «Va pensiero» una ovazione ha sommerso l’orchestra e il coro. Dieci interminabili minuti di applausi. E molte grida «Viva l’Italia». Muti allora capisce. In platea c’è quell’ansia, quel nervosismo, quella commozione che si avvicinano davvero ad essere un sentimento e concede il bis, ma per una volta, storica, fa un’eccezione e si rivolge alla platea con alcune parole, irrituali, in difesa della cultura di cui l’Italia è stata faro nel mondo e che è pietra miliare della nostra identità nazionale. Soffocata la cultura, come sta accadendo oggi, l’Italia potrà davvero dirsi «patria sì bella e perduta». Così, Muti invita quelle emozioni contrastanti, vibranti della sala a raccogliersi nel canto, a ripetere il «Va pensiero» assieme al coro e all’orchestra. E per un momento ecco quel soffio di popolo che spira nei momenti bui in cui però non tutti i fuochi sono spenti. Un’intero teatro canta quell’inno e indugia sul passaggio «O mia patria sì bella e perduta». C’è tutta la rabbia e la passione di chi ha ritrovato una voce da levare. Ecco questa è la vera bandiera di questo 150enario. Una bandiera di canto e di parole, il vero tricolore degli italiani che sventola con vigore da un teatro. Perché di questo popolo, non è nella strada, non è nei palazzi, non è nei giornali che si trova il cuore, ma nei teatri appunto in cui la parola diventa canto.

Va detto che nel Nabucco verdiano, poco dopo il canto disperato del «Va pensiero» giunge al popolo ebraico l’insperata salvezza. Ecco. Così noi speriamo che questo canto degli italiani, sia servito a far tremare nelle fondamenta l’edificio di uno Stato che da troppo tempo non ci somiglia più.