Sostenitrici dell'NDC
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Un capo tribł durante le manifestazioni elettorali
Un capo tribł durante le manifestazioni elettorali

Cosa accadrą domani
Nel documentario "An African Election" i fratelli Merz danno una lettura della democrazia all’africana

Luigi Coluccio
 
Nell’Infosfera i dati più importanti e rilevanti a livello mondiale non sono i cablogrammi di WikiLeaks o le pagine dei Palestine Papers, ma i risultati dell’ultimo rilevamento del Programme for International Student Assessment (PISA), il sistema triennale di valutazione internazionale dell’istruzione dell’Ocse. Al di là dei risultati tracciati, e della parzialità delle macroaree coinvolte, se si pensa cioè alle “rivoluzioni” degli stati arabi affacciati sul Mediterraneo e, sincronicamente, alla presenza di un solo stato africano nell’elenco dei partecipanti al PISA – la Tunisia. Rilevare focolai di crisi geopolitiche, infatti, è divenuto, grazie proprio all’Infosfera in cui siamo immersi e che indirizza micro e macromondo, una questione di algoritmi, comparazioni, grafici. E scorrendo l’avventura intellettuale di Emmanuel Todd, e le comparazioni reali delle teorie dello studioso, ciò appare in tutta la sua ineluttabilità: L’incontro delle civiltà, scritto a quattro mani con Youssef Courbage ed edito nel 2007, grazie all’attenzione posta ai tassi di alfabetizzazione e fecondità anticipava su carta quanto poi avvenuto dall’inizio dell’anno in Algeria, Tunisia, Egitto e, adesso, Libia. Avere insomma un buon aggregatore di dati e una consapevole capacità di analisi di questi ultimi permette di individuare con chiarezza, o perfino anticipare, le linee di tensione lungo il quale si muove l’assetto globale.

E i dati del PISA, o anche i dati assenti nel PISA, sono centrali non per gli attuali scenari, ma per quelli futuri. In un momento delicato come questo, quando ancora la situazione politica del Nordafrica e del Medio Oriente non è sbilanciata né per un verso (la restaurazione) né per un altro (il progressismo) e nemmeno paradossalmente in stallo, i blogger, gli attivisti, gli analisti più attenti proiettano già i loro post, twitt e report, su quello che verrà dopo gli slogan e le piazze, le folle e bandiere. E a visualizzare queste ancora acerbe previsioni ci pensa, come ai bei tempi che furono per la Settima Arte, il cinema. An African Election, documentario firmato Jarreth e Kevin Merz e fresco vincitore al Rome Indipendent Film Festival del premio “Nuove Visioni” (“opera contraddistintasi sia per l’originalità ed efficacia della proposta cinematografica, a livello di idee e contenuti, sia per l’innovatività e l’impegno profusi nel realizzarla”), mostra proprio quello che i più capaci osservatori di quanto avviene nel Maghreb e nel Mashriq stanno cercando: la difficile, lunga e pericolosa strada che porta un paese africano dalle strade alle urne elettorali, ancora e ancora. I fratelli Merz hanno seguito per tre mesi la tortuosa marcia per le elezioni presidenziali del 2008 in Ghana, dall’inizio alla fine, attaccati ai due contendenti, Nana Addo Dankwa Akufo-Addo del National Patriotic Party (NPP) e John Evans Atta Mills del National Democratic Congress (NDC). La vittoria di questo ultimo è avvenuta dopo un ballottaggio che l’ha visto prevalere con il 50,23% contro il 49,77% del rivale, con appena 40.000 voti di scarto. Le elezioni ghanesi, le terze libere dopo la reintroduzione del sistema multipartitico dal 2001, erano di capitale importanza per l’Africa intera: i motivi vanno dal bagaglio storico del paese, il primo del continente nero ad ottenere l’indipendenza nel 1957 e uno dei più votati al panafricanesimo. Se a ciò aggiungiamo la scoperta, poco prima delle elezioni, dell’esistenza di un giacimento di petrolio (Jubilee Field) al largo della costa con potenziali riserve di 1,8 miliardi di barili, allora avremo un netto quadro dell’attenzione rivolta all’evento. E i Merz, fortemente consapevoli dei numerosi soggetti e temi in campo, realizzano un lavoro estremamente misurato e curato sia dal punto di vista estetico (girato in Digital HDV) che contenutistico. La struttura portante è quella di un reportage teso e asciutto, sempre addosso ai protagonisti e che nelle giuste occasioni si lascia andare a digressioni visive e sonore e d’archivio che danno respiro e rilassano prima della nuova faglia. Con uno stile che richiama alla mente l’intero Michael Mann (Insider su tutti) e per certi versi il di lui figlioccio Peter Berg con The Kingdom, i registi tracciano i vuoti e i pieni di questo percorso accidentato, accumulando tensione fino al (breve) rilascio finale – non sono infatti indagati gli sviluppi successivi della vicenda, comunque conclusasi nel migliore dei modi, su cui purtroppo proprio in questi giorni aleggia uno scontro per ora solo diplomatico con la vicina Costa d’Avorio riguardo i confini marittimi mai tracciati tra i due paesi, che, “opportunamente”, lambiscono il giacimento petrolifero. Quello che comunque situa il tutto ad un piano superiore è la perfetta integrazione dell’operazione filmica rispetto al contesto, dove non si cerca o si cade nel pericolo di rendere ridicoli i politici e le dinamiche locali magari ancorati a tradizioni che di primo acchito non si allineano all’idea che un cittadino occidentale ha di elezioni democratiche; al contrario, i corpi estranei di questa campagna presidenziale sempre professionale e moderna risultano gli inviati europei, il delegato britannico, gli osservatori statunitensi.

Naturalmente qui non intendiamo tracciare forzati parallelismi tra vicende distanti migliaia di chilometri, reali e finzionali: l’Africa del Maghreb e del Mashriq per storia, connessioni, protagonisti, non ha ricadute dirette o perlomeno monodirezionali, e viceversa, nell’Africa subsahariana. Più che un deserto – il Sahara – c’è un continente che li separa, l’Europa. Le nazioni del nord sono infatti legate a doppia mandata con i paesi europei per una moltitudine di questioni; la fallimentare Unione per il Mediterraneo di Nicolas Sarkozy e le dimissioni del Ministro degli Esteri francese Michele Alliot-Marie sono lì per dimostrarlo. Quello che invece cercheremo, brevemente, di evidenziare sono una serie di trasversalità che attraversano omogeneamente tutto il continente, e per farlo contrapponiamo due celebri motti che ben si adattano alle rispettive situazioni: “La rivoluzione non è un pranzo di gala” e “In democrazia ci sono due cose importanti: la prima sono i soldi, la seconda non me la ricordo”. La prima è di Mao, la seconda di Mark Hanna, influente politico americano della seconda metà dell’‘800; la prima si adatta al Nordafrica e alla sua purtroppo prevedibile spirale di violenza che prima o poi doveva arrivare, la seconda, molto più pregnante e illuminante, è chiarificatrice rispetto alle pratiche democratiche di tutto il continente nero. Che lo si voglia/sappia o meno, l’Africa non è da considerarsi più come una porzione della carta geografica mondiale da ignorare o quantomeno irridere: il panorama è diventato molto più netto, lineare, riassumibile in cifre e grafici, ed è questo che attende e gorgoglia sotto e dopo le proteste nel Mediterraneo. Lo sdoganamento a livello internazionale è arrivato con la pubblicazione del rapporto della società di consulenza americana McKinsey, intitolato provocatoriamente ma consapevolmente Lions on the move. Lì si può leggere che 6 delle 10 dieci economie che hanno visto crescere in media di più il loro pil annuale tra il 2001 e il 2010 sono africane (in testa, addirittura sopra la Cina, c’è l’Angola con uno spaventoso – per tanti motivi – 11,1%); di più, nelle stime per il segmento 2011-2015 queste diventeranno 7 (con in testa l’Etiopia con un preventivato 8,1%). Progetti di poderosi spostamenti in avanti, poi, ne sono previsti e avviati a decine: l’UVA (Università Virtuale Africana), che mira ad abbattere la fuga dei cervelli tramite una formazione in loco grazie ai parteniarati con decine di istituzioni accademiche mondiali; i progetti dell’Eua (Associazione delle università europee) di cooperazione e creazione di laboratori nel continente; la Casablanca Finance City, futuro motore propulsivo finanziario intrafricano; lo sviluppo sostenibile e avveniristico della Royal Bafoken Nation… Le storture, naturalmente, rimangono impresse: l’Africa è ancora insozzata dalla povertà e dalle malattie, a cui si aggiunge una corrotta ed errata gestione e distribuzione delle ricchezze. Il continente africano si trova insomma ad un crocicchio estremamente fragile e sottile: se da un lato i problemi strutturali, umani e politici, che da sempre l’affliggono permangono nella maggior parte delle nazioni, dall’altro abbiamo un forte ancoramento alla modernità globalizzata, con tutti i rischi che questa comporta – la conversione delle colture di grano al bioetanolo in Brasile influiscono non solo sul paniere dei prezzi europei ma anche e soprattutto sulle scorte e la produttività africana… E quello che incide maggiormente, nella sua assenza, è proprio il centro di An African Election e delle lotte dei giovani tunisini, cioè la creazione e il mantenimento di una democrazia, di libere elezioni, ma, soprattutto, di un apparato statale che garantisca la triade basilare che ogni personaggio incontrato dall’obiettivo dei registi richiede a gran voce: “Food, health and education”. In un mondo che va sempre di più verso la rimodulazione del potere nazionale per compiti e strumenti continentali, l’Africa deve remare controcorrente per assicurarsi una spina dorsale che metta assieme stabilità e democrazia, controllo statale e necessaria indipendenza tribale, cooperazione e integrità nazionale superando i due più grandi, in definitiva, problemi che deficitano l’Africa politica: il personalismo e il colonialismo. E proprio i dittatori atemporali e i regimi assassini hanno perpretato stilemi e coscienze collettive ancora ferme al colonialismo, come si può benissimo inferire dal ballottaggio ghanese, deciso da una sperduta circoscrizione nella regione del Brong-Ahafo, nord-est del paese, dove tribù delle più disparate etnie stentato a vivere perfino del prodotto dei campi.

E’ dai ’60 della deconolizzazione e di Independence cha cha che il continente non era protagonista a livello mondiale con sfide di portata epocale. Il futuro che attende i giovani algerini, tunisini, egiziani deve essere quello ghanese mostrato da An African Election, tranne per una brevissima ma spaventosa e catartica sequenza: quando una folla di ragazzi si raduna attorno la macchina “presidenziale” del fu tenente dell’aviazione, e oggi “former president”, Jerry Rawlings, spingendo per toccarlo e urlando nella rossa notte “Rawling we are dying. Second Jesus. Our father, Jerry Jesus”.