Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Un saluto puro come la neve sul Sannine |
L’altra parte dello sguardo sulle rivoluzioni mediorientali nella mostra Breaking News al Sant’Agostino di Modena |
Attilio Scarpellini |
E’ un foglio di carta leggero e sull’intestazione, sotto una scritta in caratteri arabi, si legge: Family news of a strictly personal nature, notizie familiari di natura strettamente personale, una data stampata con un timbro (20 novembre 2009) e poi il testo manoscritto di una lettera in arabo che segue giudiziosamente delle righe di puntini pre-stampati, simile a quelle che gli scolari italiani degli anni ’60 compilavano prima di Natale per inviarle ai genitori. Proprio come in quei biglietti (talvolta spruzzati di una polvere d’oro), su un lato del foglio c’è disegnata una grande rosa: il tratto è infantilmente accurato, il colore steso con paziente concentrazione, rosa rosa, gambo verde da cui spunta un bocciolo ancora chiuso. Ma a disegnare e a scrivere non è un bambino: è un giovanissimo militante palestinese, Nabih Awada, detto Neruda, incarcerato nella prigione israeliana di Askalan, dove è rimasto per un anno. «Nel nome della speranza e della libertà- comincia la lettera – Mia diletta madre, un dolce saluto colmo d’amore con tutta la nostalgia e la compassione che provo per te, un saluto puro come la neve sul Sannine, un saluto di fermezza che non vacilla (…)». E’ un linguaggio che risuona quasi familiare, almeno alle orecchie di questo anno italiano, segnato, nel bene e nel male, dal contrappunto di un risorgimento giovanilistico pieno di martiri ed eroi di 18, 20, 22 anni, lo si può mettere facilmente a confronto con le lettere dei Morosini, dei Mameli, dei Dandolo, e di altri sconosciuti patrioti accorsi a Roma sotto le insegne repubblicane che Ugo Riccarelli ha raccolto in forma di Coro nel suo La repubblica di un solo giorno (“Cara Madre, il mio povero cuore percosso da tante dure emozioni sentirebbe un supremo bisogno di un po’ di quiete…Cari genitori, voi mi avete educato all’amore fraterno delle genti, alla stima della libertà, so che mi capirete”) (1). La lettera di Nabih fa parte di un’installazione fotografica dell’artista libanese Akram Zaatari, Nabih Awada’s letters from Askalan presente alla mostra Breaking News. Fotografia contemporanea da Medio Oriente e Africa che si è chiusa il 13 marzo scorso all’ex ospedale Sant’ Agostino di Modena. E, rispetto al realismo fotografico imperante tra le 120 opere dell’esposizione, le installazioni di Zaatari (assieme alla lettere di Askalan è esposto il Book of letters from family and friends del 2007) rappresentano uno degli scarti più vistosi e riconoscibili verso il linguaggio di certa arte contemporanea occidentale, in particolare la cosiddetta narrative art. I reperti fotografati e montati da Zaatari, in altre parole, ricordano i romanzi visivi di Sophie Calle, ma con una differenza di fondo che, più che le tecniche utilizzate, riguarda, per così dire, i rispettivi generi letterari, e il diverso accento che il termine “privato” assume nelle loro scritture. L’autrice di Douleur exquise, e di altri monumenti sentimentali (come il ponderoso Prenez soin de vous, originato, come è noto, dalla rottura di una relazione sentimentale via mail) non ha parlato altro che di se stessa, utilizzando l’arte come strumento di costruzione (e di decostruzione) di una leggenda biografica: l’identità e l’automitizzazione – compresa una mitomania neanche troppo sottile – restano il centro della sua poetica, al pari di altri percorsi artistici che trovano la loro origine nel lavoro di Andy Warhol, come ad esempio gli estenuanti cicli di trasfigurazione a cui Cindy Sherman ha sottoposto la propria immagine nel corso del tempo. L’artista libanese, invece, potrebbe dire con Heiner Müller: «L’interesse che nutro verso la mia persona non basta per scrivere un’autobiografia. L’interesse che nutro verso me stesso è più forte quando parlo di altre persone» (2). Se in parte le sue raccolte di documenti privati – ma in realtà la stessa intestazione della Croce rossa in capo alle lettere “strictly personal nature” tradisce l’intrusione della censura militare nell’impossibile privatezza della corrispondenza di Nabih “Neruda” Awada – ricordano le installazioni della Calle, dall’altra richiamano quel paziente lavoro di riesumazione del dettaglio - del sintomo - su cui un altro artista libanese, Walid Raad (di cui La Differenza ha parlato nell’ultimo numero della sua serie settimanale) fonda il suo tentativo di ricomposizione di un’identità culturale che la guerra ha fisicamente devastato. Non il privato, dunque, ma il singolo in rapporto alla storia e al potere, è il terminale romanzesco della narrazione epistolare ripresa da Zaatari – e la storia, come res gesta del comune, è esattamente il terreno, lo sfondo che il post-modernismo artistico occidentale ha in gran parte disertato. La storia è finita, era la conclusione malinconica dei teorici degli anni ’90 che, da Fukuyama a Baudrillard, interpretavano come un destino (ottimo secondo il primo, pessimo per il secondo) l’eclissi dell’evento simbolico sull’orizzonte di un mondo appiattito nel pensiero unico della globalizzazione. La storia, come invece afferma Lanfranco Caminiti commentando le rivolte che traversano il Maghreb e il Machrek arabi (3), è impensabile. L’evento è impensabile nella sua articolazione di tempo individuale e tempo comune, nel suo kairos: nessuno potrà mai del tutto sviscerare il legame interno tra il carretto di frutta di Mohammed Bouazizi e il domino di rivolte a cui il suicidio del giovane tunisino ha dato il via. E’ il riscatto individuale, dice Paola Caridi sul suo blog (4), ad aprire quel nuovo, immenso spazio pubblico che unisce le piazze arabe del febbraio e del marzo 2011, in un movimento che va dalla compressione singolare all’esplosione collettiva, paragonabile solo, secondo la scrittrice di Arabi invisibili, all’’89 esteuropeo. Un’altra artista, tra quelli presenti nella collezione di Breaking News, lavora con pazienti ricami sulla faglia che separa la biografia personale da quella collettiva. E’l’iraniana Jinoos Taghizadeh. In un certo senso, i collages fotografici di questa versatile artista di Teheran, passata per il teatro e la videoarte, raccontano la rivoluzione, anzi raccontano il fallimento della rivoluzione, il suo continuo involversi nel contrario di se stessa, uno dei temi più sensibili e sentiti nella coscienza persiana. Ma, per cominciare, lo fanno attraverso un uso sapiente dell’anacronismo, componendo in un'unica soluzione visiva immagini della tradizione pittorica occidentale e pagine di giornali iraniani appena precedenti o di poco successive alla Rivoluzione del 1979. Una Lode a Jacques-Louis David si presenta come la pagina di un quotidiano il cui titolo annuncia la “fine di un secolo di censura” che al posto della fotografia di taglio basso porta una riproduzione di uno dei dipinti più stigmatici del cantore della Francia rivoluzionaria (ma anche di Napoleone), La morte di Marat. In alto e sui lati, la pagina è solcata dalle fotografie di mani che mimano le figure della morra cinese (il taglio delle forbici, il pugno del sasso, le cinque dita aperte della carta): e non sono soltanto queste figure di una gestualità che si rifà al gioco e al caso a indicare le fluttuazioni della storia – o il cinismo delle élites politiche che giocano le loro sadiche sciarade sulla testa del popolo – è la derisorietà del titolo (la censura non finirà con la repubblica degli ayatollah, al contrario, dopo una breve pausa, vivrà un nuovo periodo di splendore) e la stessa ambiguità del simbolo pittorico prescelto, con il languido braccio di Marat che sporgendosi dalla vasca si abbandona a terra, le dita della mano ancora chiuse sulla penna, a configurare una specie di visione büchneriana della rivoluzione e delle rivoluzioni che “come Saturno divorano i propri figli”. Ironia della sorte, la didascalia sul catalogo edito da Skyra parla di Marat come di un “celebre personaggio della Rivoluzione francese assassinato da un fanatico”, tradendo così definitivamente il senso dell’opera della Taghizadeh, che di tradimenti parla, perché non di un fanatico si trattò, ma di una fanatica, la girondina Charlotte Corday d’Armont, che affondò il pugnale nel petto del più fanatico, del più sanguinario, dei triumviri rivoluzionari (un po’ di consapevolezza storica non farebbe male anche a didascalisti, curatori ed esteti). Ma, guardando con più attenzione il collage, si scopre sul lato sinistro una notiziola con al centro una fotina che segnala una “persona scomparsa”: è la stessa Jinoos Taghizadeh fotografata da bambina. E’ attraverso questo dettaglio che l’excursus storiografico della Lode a Jacques-Louis David viene riavvolto nella dimensione biografica di un’esistenza nata alle soglie della rivoluzione e di un’infanzia scandita dalle esecuzioni capitali dove insiste l’anacronismo più sottile di queste suggestive miniature fotografiche: Jinoos Taghizadeh parla dell’Iran attuale parlando di quello della fine degli anni ’70, dove tutto è cominciato, e nel contempo riscrive la propria infanzia, segnalando la propria scomparsa in quanto individuo sullo sfondo di una storia fatta di promesse mancate e di speranze tradite. Di più, rigioca l’infanzia, arretrando al periodo in cui, appena tornata da scuola, spentosi il richiamo del muezzin, sentiva rintoccare il suono degli spari provenienti dal carcere di Gahsr e li contava, “Uno, due, tre…”, in attesa che il giornale del mattino seguente le riportasse, con le foto dei condannati, l’esattezza di quel calcolo crudele. Anche le citazioni pittoriche che accendono le sue calligrafie sono un ricordo, il ricordo della sorella maggiore che disegnava ispirandosi ai capolavori della grande arte europea che poi sarebbero stati proibiti dal regime. Le sue Lodi, a David, a Bruegel, a Bosch, sono dunque altrettanti rebus, non possono essere guardati, devono essere letti. Ora, la scrittura è il principale elemento di raccordo tra l’arte contemporanea iraniana e la tradizione pittorica musulmana (non soltanto persiana), basta pensare a come Shirin Neshat le fa cortocircuitare nelle sue foto di volti, di mani, di piedi femminili istoriati dai versi di poetesse – delle sure tatuate sulla carne che confermano e a un tempo trasgrediscono gli interdetti coranici sul corpo e sull’immagine, in un gioco di rivelazioni, dove la scrittura copre e sottolinea quello che copre, la trans-apparenza di un corpo che è sempre il primo piano della sua rimozione sociale, la litote di tutti i divieti. La cultura musulmana ha da tempo trasformato i caratteri della scrittura in un’estetica (che fino ad ora abbiamo considerato, del tutto arbitrariamente, come un’estetica di riserva). Ma nelle opere di Jinoos Taghizadeh, più che la calligrafia, sembra insistere il retaggio della miniatura come lo ha raccontato Hans Belting nel suo recente saggio su I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e occidente (5), perché la miniatura si incastona al libro determinando non uno stacco, ma una continuità visiva della narrazione, cioè come un’arte del tempo, non dello spazio (che difatti, seguendo l’iconologo tedesco, respinge al mittente la suggestione della forma prospettica come un’inconcepibile spazializzazione della parola sul teatro dell’immagine). (1) Ugo Riccarelli, La repubblica di un solo giorno, Mondadori, Milano 2011, p. 98-99 (2) Heiner Müller, “Ricordo di uno stato” in Guerra senza battaglia, Zandonai, Trento 2010 (3) Su “Gli altri” del 25 marzo 2011 (4) Vedi i diversi post su www.invisiblearabs.com (5) Hans Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2010 |