Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 01 Del 19 - 5 - 2007 |
Il nero e il bianco |
Teatraria e Zeitgeist: immersioni negli spazi della Garbatella |
Mariateresa Surianello |
Come l’antechiesa medievale era spazio compromesso nella ri-attualizzazione della passione di Cristo, lo spiazzo antistante il Palladium è usato da TeatAria per la sacra rappresentazione del disagio quotidiano, quasi una stigmatizzazione dell’indifferenza di fronte alla sofferenza del vivere quotidiano. La compagnia romana, attiva in una delle zone simbolo del degrado metropolitano, in una periferia – oramai neanche troppo periferica – Laurentino 38, è abituata a innestare azioni performative in luoghi extrateatrali e a interagire con lo spazio prescelto, ma forse ancora di più con le umane presenze che quello spazio animano nel loro vivere “ordinario”. Martinette, proposto in questa lunga carrellata di Teatri di vetro, è una breve interruzione, quasi un aperitivo tra il convegno pomeridiano e la programmazione serale. Ma di aperitivo molto amaro si tratta, nella sua drammatica ironia. Sul “sagrato” del Teatro Palladium – cuore del festival – due donne in costume da bagno (Chiara Condrò e Michela Iori) sono distese al sole, il loro sguardo è nascosto da grossi occhiali scuri, e proseguono in un’assenza di attenzione - anche quando un terzo elemento uomo entra correndo in scena con una valigia e una bottiglia - mentre controvoglia mangiano una mela (frutto di troppo facili significati simbolici). Ma il punto non ci pare sia il gap di comunicazione tra generi, in questo caso solo maschile e femminile. La questione che gli autori (Danilo Morbidoni, Sara Panucci e Valerio Tani) vogliono sottoporre, anche a spettatori occasionali, sembra proprio essere l’umana indifferenza di fronte all’altrettanto umano bisogno di aiuto. Indifferenza che emerge chiara attraverso l’interazione con lo spazio e le persone, e sono proprio queste ultime a reiterarla nel divenirne involontari protagonisti. L’attore (lo stesso Tani) posa la valigia e con la bottiglia in mano attraversa lo spazio scenico, lasciando una scia di alcol. Corre ripetutamente al margine della strada, tentando di fermare le automobili in transito. Solo dopo un buon numero di volte l’azione sortisce un risultato positivo, un maturo signore frena l’auto e tira giù il finestrino mettendosi all’ascolto dello sconosciuto bevitore. Non sappiamo cosa gli abbia detto l’attore, questo comunque ci è parso il segnale per il proseguimento dell’azione. Collocandosi tra le due distratte bagnanti al centro dello spiazzo, l’attore inizia a versarsi il restante liquido della bottiglia sulla testa e poi apre la valigia. Dentro c’è solo sabbia, che l’attore con rabbia fa volare in alto, come farebbe un cane seguendo il suo fiuto. Poi la raccoglie, questa sabbia dorata, a farne un montarozzo e saltandoci sopra comincia a chiamare: «Mamma..., papà...», in un crescendo di disperazione. Alla fine sono grida dolorose, ma una musichetta da spiaggia, cresce piano piano di volume fino a sommergere, altissima, quelle grida disperate. Nel frattempo avevamo notato che il “temerario” signore dell’automobile non aveva resistito alla curiosità e da passante si era trasformato in attentissimo spettatore. E’ rimasto fino alla fine, ad applaudire. Questo livello di scambio con il luogo dell’azione ci sembra uno degli elementi più significativi anche nell’installazione di Stefano Taiuti, nel cortile del Lotto 16. A parte la scelta di un luogo incantato, che solo a entrarci capisci come possa la Garbatella essere divenuto quartiere di studio per architetti d’Oltreatlantico e del mondo intero. Qui, al centro del cortile, un rettangolo di 10 metri per 6, di color panna attende i cinque danzatori. In un silenzio irreale, entrano in scena Flavio Arcangeli, Maddalena Gana, Alessandra Cristiani e Camille Mutel, guidati da Taiuti, e si pongono in una placida tensione – come già Zeami insegnava nei suoi trattati nō - che li sosterrà per tre ore. Nudi, solo un perizoma bianco nasconde il sesso, e nelle tre donne, semplici linee, orizzontali e ancora bianche, ne segnano i seni. Un po’ di biacca (bianca) disegna con pudicizia una sorta di inutili calzoncini che non servono certo a nascondere i glutei. Sono corpi nudi che si mostrano in tutta la loro debolezza e, allo stesso tempo, resistenza, quelli che arrivano davanti alle anziane signore in vestaglia del Lotto 16, e la Garbatella trionfa in tutta la sua vera essenza di quartiere popolare. Giunto alla danza butoh dopo una lunga esperienza da artista di strada, Stefano Taiuti, con la sua compagnia Zeitgeist, ha costruito uno spettacolo di potente impatto, come si diceva qualche riga prima, in particolare per la relazione che si crea con il luogo eletto a spazio scenico. Certo i danzatori chiamati per questo D.N.A. – di natura assente (all’inizio titolato Danzesculture) hanno già mostrato in altre occasioni capacità di reinterpretare la tecnica giapponese che, alla fine degli anni Cinquanta (1959 è la data di nascita ufficiale della cosiddetta danza delle tenebre di Akira Kasai e Tatsumi Hijikata, considerati, con Kazuo Ohno, i padri del movimento), provocò scandalo e grossi turbamenti nel paese dei primi lanci atomici statunitensi. E, forse, avere toccato l’assoluto, come, del resto, era accaduto nello stesso torno di tempo con i campi di sterminio nazisti in Europa, ha portato alla nascita di questa danza che unisce corpo e spirito. Il butoh bianco ha avuto particolare successo in Italia, e diverse sono le esperienze di avvicinamento a questa tecnica nella danza contemporanea e d’autore (a Roma, il Teatro Furio Camillo è diventato da oltre un lustro luogo d’accoglienza per espressioni e rielaborazioni di butoh che, raccolte in rassegna, disegnano un ampio panorama dell’esistente). Una tecnica che mette a dura prova il corpo e lo spirito del danzatore, ma non lascia indenne lo spettatore. A quest’ultimo si richiede una partecipazione attiva, per entrare nel ritmo profondo dello spettacolo - se non si stabilisce questa stretta relazione, lo spettatore cede all’insofferenza e si chiude, si provoca un’interruzione totale e l’abbandono. Nel rettangolo color panna i cinque danzatori iniziano il loro movimento lento, impercettibile, solo Alessandra Cristiani sembra più mobile (del resto, il butoh si trasforma in ogni corpo che lo vive). Gli spettatori possono sedere sui muretti che perimetrano la scena o entrare nell’installazione, in quelle isole d’ascolto che Taiuti ha previsto in tre angoli. Qui sono a disposizione tre-quattro cuffie, ma gli spettatori per accedervi devono rigorosamente liberarsi delle scarpe. Così, a piedi nudi, si entra in un flusso d’ascolto che in qualche modo agevola – o, forse meglio, completa – la visione, e la carica di senso. Da questa postazione e se l’olfatto non ci inganna, confuso dall’intensità dei rincospermi in fiore, la polvere color panna sul pavimento diventa farina. Impalpabile, deperibile e nutriente materia, che lentamente ricoprirà i corpi dei danzatori. Dalle cuffie escono suoni naturali, acqua che scorre, vento che soffia, a volte lieve altre volte di tempesta. Il cinguettio di uccelli è interrotto dal muggire di una mucca o dall’abbaiare di cani in lontananza. All’improvviso però rumori sintetici si accavallano al richiamo di una gazza ladra. Una colonna sonora infinita che attira uno dopo l’altro tutti gli spettatori, anziane signore e bambini, in un accesso autoregolamentato, forse dai cartelli che invitano a rispettare la quiete e vietano, tra l’altro, l’accensione di fuochi, ma permettono di allontanarsi per poi tornare liberamente. In un dopo di cui si è perso l’inizio, entra un suono di sirena ad avvisare i performer che si è giunti al termine. Mezzanotte è passata da qualche minuto e i cinque protagonisti si raccolgono al centro e si inchinano per ringraziare tra gli applausi. Sono trascorse tre ore. |