"Sangue giusto" - Sarah Sammartino

"Father" - Why company

Anno 0 Numero 02 Del 21 - 5 - 2007
Capiamo insieme la differenza fra “studiare” e “fare uno studio”
Sarah Sammartino, Why Company e Lorenzo Pietrosanti aprono la sezione Studi.

Gian Maria Tosatti
 

Il giorno che ho conosciuto Vinicio Capossela è stato per via della sua curiosità riguardo ai Karamazov. E poi mi ritrovo ancora il binomio Karamazov e Vinicio, nello studio Sangue Giusto di Sarah Sammartino. Un opera dai moltissimi limiti, in cui tuttavia emergono alcune linee potenzialmente intriganti. Ma sono linee che vanno percorse tutte fino in fondo, in profondità, smantellando il corpo di un lavoro che indulge un po’ troppo verso i suoi difetti strutturali. La recitazione è la prima delle defaillance in questo percorso. Le due interpeti, tra cui la regista e Ludovica Andò, si presentano senza una formazione attoriale. Entrambe fanno il verso alle attrici come i ragazzini nei loro giochi imitano i cavalieri o gli astronauti. Ed ecco che adesso giocano a fare i Karamazov, loro due più un ragazzo francese che si diverte con loro. Fin qui tutto bene se non fosse che il teatro è anche un mestiere, che come tutti gli altri si deve conoscere nei suoi molteplici aspetti. E tra le molte cose si deve sapere che trasformare la lingua narrativa in lingua drammatica necessita una operazione profonda di riscrittura. E a questo proposito non si può non citare proprio il Karamazov di Ronconi. Per fare Dostoevskij, e specialmente quest’opera di Dostoevskij, forse bisognerebbe conoscere il teatro russo, in cui prima di parlare si sta molto tempo in silenzio a preparare la battuta. Giacché, appunto, Karamazov è un opera in cui poche parole emergono da un silenzio sconfinato, in una proporzione che in nessun modo è rispettata dal continuo vomito di parole con cui gli attori di questo studio si assalgono l’un l’altro senza ascoltarsi. Ma proprio perché si tratta di uno studio si guarderà con una certa benvolenza, affermando che in fondo è interessante l’idea di portare Mitia e Grusen’ka al clima di Capossela, ma che anche questa è una operazione da condursi fino in fondo. Non basta giustapporre una canzone ad una scena, come non basta mettergli una bottiglia in mano per far puzzare di vino un attore. E non basta nemmeno la buona composizione cromatica dei costumi in una scena in fondo non male illuminata. Ma come trasformare tutto questo in uno spettacolo? Beh, certamente ripartendo dal piccolo, dal sussurrato, dalle relazioni delicate, dall’ascolto. Ripartire dal silenzio, dai movimenti senza testo – che nel calcio corrispondono ai “movimenti senza palla”, ossia ai “fondamentali” - in cui la Andò dimostra una certa predisposizione. Ripartire, si deve, sempre, ma con l’umiltà di chi sa che per salire su un palcoscenico c’è bisogno, prima, di entrare in una scuola.

Non troppo diverso è ciò che si può dire del gruppo Why Company, che ha proposto un primo abbozzo di Father. Da salvare la prima parte del video, in cui interessante è la composizione nervosa dei piedi calzati in scarpe da flamenco. E poi anche la traccia audio del racconto che ben si lega col suono elettronico. Peccato essa sia resa ridondante dal resto delle immagini video. Per il resto il problema è essenzialmente uno, le danzatrici non sanno danzare, o almeno non in modo che ciò possa essere considerato professionale. Detto questo, cos’altro aggiungere per uno spettacolo di danza?

Ultimo lavoro presentato in questa prima tornata di studi è La mostra del fuori luogo di Lorenzo Pietrosanti, che per motivi tecnici è stato possibile vedere solo in video. Scrivere una critica sulla base di un video è già difficile in sé, e diventa quasi impossibile farlo se il video è parziale. In queste condizioni non si possono capire la tenuta ritmica e drammaturgica, la qualità degli attori e il modo in cui certi spunti interessanti arriveranno a compimento. Ma ad indurmi verso una ulteriore cautela è il tema trattato dallo spettacolo, che sembra portare lo spettatore verso un bilico morale molto pericoloso. Il gioco di Pietrosanti è provocatorio e procede da una riflessione sul potere e i condizionamenti. Per farlo usa argomenti che fanno male davvero, come le tesi negazioniste sull’Olocausto. Esprimersi non è possibile senza vedere tutta l’opera e quindi, a parte notare la vivace intelligenza di certi momenti ironici e questo è tutto ciò che posso dire.