Anno 0 Numero 02 Del 21 - 5 - 2007
Lotto n. 12
Pierpaolo Palladino, una battaglia contro la Storia

Attilio Scarpellini
 

Il singolo è solo schiuma sulle onde. (G. Buchner)

Ecco uno spettacolo, La battaglia di Roma di Pierpaolo Palladino, che potrebbe stare senza sfigurare su qualunque palcoscenico, ma che in nessuna cornice sembra più al suo posto come nella piazzetta del Lotto n. 12 della Garbatella, dove l’abbiamo visto: circondato dai palazzi con i panni stesi, sovrastato all’inizio da un azzurro ancora impallidito dalla calura, spiato sul finire da una luna a falce che nel cielo blu scuro reggeva il filo di un’unica stella. Qui “sora nonna” deve ancora essere una voce, un personaggio possibile, e l’eco della battaglia di Porta San Paolo forse non si è ancora spenta nella memoria dei muri, se non in quella ondivaga di qualche vecchio che all’epoca era poco più che un ragazzo. Qui il romanesco franco, acceso e poi temperato di ironia e quasi da una specie di dolcezza – per la fragilità della vita, non per altro – è ancora un suono familiare anche se a portarlo è il multiverso letterario coniato da Palladino per il suo poema solitario: endecasillabi e settenari, rime baciate, rime interno, verso libero. Il romanesco della vulgata scampata alla modernizzazione e quello della tradizione colta di Belli e Pascarella. E forse qui, persino, la logica vitalistica, creaturale, che ispira questa Spoon River della resistenza romana, dove i morti parlano e raccontano, mentre i sopravvissuti appaiono come angeli sul ciglio della morte, ha ancora una fragranza, un senso, una possibilità di essere intesa. Perché il torto più grande che si potrebbe fare a una ballata per attore solo (e musicisti tre) come La battaglia di Roma è di scambiarla per l’ennesima orazione di un teatro civile che punta dritto alla comunicazione di un significato politico. Franco, Franceschì come lo chiamano gli amici, è indisponibile alla retorica come lo è, fino al fondo della sua discesa negli inferi della guerra, alla morte: tutto il suo sogno è tornare al Quarticciolo o ritrovarsi con gli amici tra le onde non ancora inquinate del mare di Ostia. Come l’Eddie Carbone di Uno sguardo dal ponte, il “buon soldato” di Palladino non è “preparato ad avere un destino”: il cielo della sua vita non conosce visioni o trascendenze che non abbiano la vita stessa – la sua persistenza quasi vegetale, la sua eternità contadina avrebbe detto Pasolini – come orizzonte. E la scrittura di Palladino gli assomiglia: agitata dall’onda anomala dell’Evento – quando il 10 settembre del ‘43 i soldati della caserma del Castro Pretorio scoprono di dover difendere Roma dai tedeschi - non rinuncia a filtrarlo in uno sguardo singolare che, davanti ad esso, mantiene intatto il suo sbalordimento, la sua ottusità, la sua refrattarietà beffarda a lasciarsi divorare da quello che James Joyce chiamava senza mezzi termini “l’incubo della storia”. Così, la Battaglia è pur sempre un epos ma raccontato appunto alla romana – come la Scoperta dell’America di Pascarella – con un registro lirico che, deformando gli eventi, li rende in una soggettiva ironica e scompigliata, troppo piccoli quando sono guardati dall’alto (dalla piramide Cestia su cui è montata una mitragliatrice), indecifrabili quando sono visti dal basso, nel cuore confuso di un combattimento che ha le movenze smarrite della lunga corsa di Fabrizio Del Dongo tra i fumi e le urla del campo di Waterloo. Il Palladino interprete segue il flusso senza riserve, iscrive corpo e voce nel ritmo della scrittura e, poiché il suo verso non è mai prevedibile, non esita a lanciarsi per la china delle sue precipitose cadute a terra, a mimare il rumore della battaglia, il dolente stupore dei corpi sballottati, l’urlo, il tonfo, l’imprecazione, oppure a impennarsi in quelle improvvise verticalizzazioni nel miraggio e nel sogno con cui il racconto sconfina dal realismo della Storia e diviene, contro di essa – contro il suo fiume indolente carico di affogati - affabulazione. Non è un narratore immobile, Palladino, è un attore suggestionato dalla stessa danza di morte che porta Franco, Alfredo Cerasoli detto “er marcavisita”, il veneto Bordin, a sacrificarsi senza averlo mai veramente desiderato per una patria che con il Re e Badoglio li ha appena abbandonati, spalleggiati soltanto dal popolo di Roma che spunta da ogni vicolo, da ogni casa, armato (quando va bene) con il fucili del 1891. L’antifascismo trasale, ma come un grido esacerbato sulla schiuma della guerra: umano, popolare, senza bandiera – è il “ci avete rotto” delle quattro giornate di Napoli. E persino la patria perduta l’8 settembre ritrova un cenno, la bellezza di uno squarcio quando, nel silenzio irreale che precede lo scontro a Porta San Paolo, un soldato siciliano intona il “Va pensiero…” verdiano. Ma è anch’esso il commovente fantasma di una ballata che di profondamente politico ha soprattutto la logica rovesciata che ne scandisce il controcanto: verso che resiste nella prosa del mondo che lo sommerge, voce di chi in capitolo non aveva voce, eroismo di chi non si voleva eroe, ricordo di chi non ha lasciato alcun ricordo - storia salvata da chi la Storia abitualmente non la fa, ma la subisce.