Francesca Donnini (Rialto Santambrogio) e Giorgina Pilozzi (Angelo Mai)
Francesca Donnini (Rialto Santambrogio) e Giorgina Pilozzi (Angelo Mai)

Anno 0 Numero 03 Del 23 - 5 - 2007
Parlate con chi vi sta accanto: storia di muri e di campane
Editoriale

Attilio Scarpellini
 

Parlate con chi vi sta accanto, diceva uno degli slogan meno deperibili ( e tuttavia più inascoltati) del maggio del 1968. Tutto si è fatto nel confronto tra generazioni del teatro e della danza di lunedì scorso, fuorché adempiere a questa indicazione minima, ma essenziale: si è parlato e ci si è raccontati (molto, fluentemente, poco, a balbettii, commossi, freddi, adirati) si è teorizzato anche (quel che basta a ricordare che il teatro è anche logos, discorso, all’occorrenza ideologia) ma non ci si è parlati, se non con un codice muto che preferiremmo non aver compreso. Quel codice di riserve mentali, più forti di qualunque parola, diceva che l’esperienza delle cosiddette cantine e quella dei teatri indipendenti sono incommensurabili, perché le prime avrebbero risposto a una fondazione artistica originale, i secondi sarebbero soprattutto un escamotage organizzativo per aggirare la ben nota noluntas della politica culturale - tuttalpiù degli epigoni di un movimento che, nel frattempo, sopravvive nell’ostinazione di qualche reduce o si è sbriciolato in mille bolle di celeste nostalgia. Come nei Cottimisti di Rem & Cap, protagonisti della prima tranche di dibattito accanto ai giovani di Muta Imago e Residui, tra i padri e i figli si è alzato improvvisamente un muro. E’ un muro più resistente di ogni buona intenzione, perché non sono gli individui a costruirlo, ma la loro storia, cioè la certezza orgogliosa o la scivolosa insicurezza della loro identità. E’ un muro impastato con quelle che Joyce chiamava “le parole grosse che ci rovinano la vita”: avanguardia, tanto per pronunciare la più micidiale, la più ambigua, e naturalmente la meno spiegata, era una di quelle. Muro di equivoci, di reticenze, di omissioni, dove la modernità solida dei rivoluzionari d’antan mette in scacco l’identità troppo liquida dei dissidenti (dal e del teatro) di oggi, per poi metterla in guardia sui rischi di tradimento (di mercificazione, di spettacolarizzazione) senza però aggiungere che i soldi e il potere sono in realtà la deriva di ogni avanguardia che si rispetti. Ci sono molte buone ragioni per denunciare, come ha fatto Riccardo Caporossi, una fugacità di relazioni che rende imponderabile la comunicazione tra le generazioni, ma forse è meglio spiegare come e quando questa trasmissione si è interrotta nell’esperienza del nostro teatro di ricerca. Se non ci sono più figli è perché magari non ci sono mai stati padri: la moda del tempo, del resto, prevedeva di ucciderli prima che loro ci divorassero. I giovani a cui nessuno ha consegnato il segreto per costruire la campana, finiranno col costruirla da soli, come nel film di Tarkovskij: da questa torretta di osservazione, nel corso della sagra, ci sembra già di averne sentite cantare alcune. Forse non erano suoni perfettamente nitidi, erano suoni ibridi che Lenin non avrebbe mescolato nel suo bicchiere, ma persino il manifesto di Ivrea che voleva portare il teatro sulle sponde risolutive della “contestazione globale e assoluta”, rivendicava il diritto all’errore come lievito della ricerca artistica. Sarebbe stato il caso di parlarne. E invece…

A poco è servito che i moderatori della generazione intermedia si sbracciassero per aprire l’orizzonte del convegno a una contemporaneità – come categoria storica, non come ideologia estetica – in cui vecchi e giovani, padri e figli, convivono insieme. Che Daria Deflorian dicesse per me voi non siete né il passato né il futuro ma il presente del teatro italiano. Che Andrea Felici sollevasse l’analogia tra le cantine degli anni ’60 e gli spazi occupati della fine del secolo per dimostrare che, sognando lo stesso sogno, combattono la stessa lotta. Seduti dietro la lunga cattedra dell’Aula Magna della terza università, ciascuno smarrito nel proprio versetto interiore, i protagonisti del famoso confronto avevano l’aria di non vivere non dico nello stesso tempo, ma nemmeno nella stessa Città. Senza neanche sospettare che dal loro confronto, forse dalla loro collaborazione come artigiani, prima che come maitres à penser, potrebbe scaturire l’unico muro che merita di essere edificato in una metropoli come Roma: quello che separa l’arte come circolazione di senso dai fasti rinascimentali del consenso. La prossima volta, vi prego, parlate con chi vi sta accanto. Abbiamo un gran bisogno di ascoltarvi, prima che sia troppo tardi.