Anno 0 Numero 03 Del 23 - 5 - 2007
La grazia e la ricerca
Raggiunge gradi di perfezione la ricerca artistica di Alessandra Cristiani sull’immagine.

Gian Maria Tosatti
 

Il buio riempie la sala lentamente colando giù dai muri, dalla galleria. Il suono, pompato come sangue, scandisce il ritmo di quest’annegamento. Il lavoro ha inizio con grazia quasi neoclassica, richiamando una Venere spiaggiata dalla violenza del mare che da decenni sferza le coste balcaniche. Nuda, trascinando la sua conchiglia, la danzatrice striscia quasi ferita, lasciando una scia di polvere.

La nudità imprescindibile degli spettacoli di Alessandra Cristiani, è l’elemento centrale della sua ricerca formale, che fa del corpo scrittura, linea, tratto, attraverso lo smembramento prodotto dalla luce di cui è sempre autore Gianni Staropoli. Le linee archetipe che sfuggono all’oscurità non sono corpo, ma segni che rimandano al corpo. La figura si apre nella sua plasticità diventando implementabile da molteplici elementi che in essa si innestano allo stesso grado elementare di visibilità. La scia di polvere che il suo strisciare lascia, diventa sangue, liquido e solido indifferentemente nella trasfigurazione degli elementi in tracce.

La ricerca che, con un rigore drammaturgico assoluto e con una estrema consapevolezza dell’immagine, la Cristiani porta avanti ormai da qualche anno conduce alle estreme conseguenze lo smembramento del linguaggio. La grammatica del corpo in scena è totalmente sradicata e la sua ricostituzione spesso coincide col momento catartico dei suoi lavori. Qui accade a metà, quando la si vede emergere dall’ombra come una bambola vuota, una donna divorata, senza volto, senza occhi per poi reimmergersi nel buio e riuscirne viva con mutilazioni esteriori e poi interiori. Di fronte ad un muro, o contro un muro, la schiena curva, come un arco nodoso all’estremità del quale un gesso disegna una porta verso un altrove, una tana.

Quello che riesce a fare la Cristiani è mettere concretamente in discussione la fisica dello spazio, portando l’immagine scenica su un piano integralmente pittorico, e in quanto tale – come nelle opere di Escher o di Picasso - totalmente libero dalle leggi che regolano lo spazio. In questo senso la resa di fronte alla porta disegnata per disperazione sulla parete nuda non ha il senso di un attraversamento impossibile, ma di un attraversamento mancato, in cui ancor più esasperata è la drammaticità della caduta ai piedi del muro, della fuga andata male. In questa astrazione crudele, priva di retorica, c’è la sensazione epidermica dei buchi di proiettile nei palazzi di Sarajevo, la cui rassegna davanti agli occhi dell’artista ha ispirato questo Geynest under Gore.

E poi di colpo il suo staccarsi dal quadro, pendere sui suoi piedi come appesa ad un cappio interiore. A terra la conchiglia diventa una rosa recisa ai piedi di un gambo che si piega, appassisce su sé stesso come un punto interrogativo, fino a capovolgersi nella sua fisicità animale, svelando la consistenza umana di organismo vulnerabile, fatto di grassi e budella, orrendo nel suo sfaldamento, come guardare un parto, nella disarmate crudezza idraulica in cui la vita si perpetua.

Questo riesce a fare la Cristiani. Portare il discorso ad un livello di semplificazione matematica tale che destruttura la complessità dell’equazione e lascia esposta l’inaccettabile nudità primitiva del numero e la sua totale mancanza di senso perché privo di umana retorica. Incomprensibile, come vedere il cuore sul banco del macellaio e pensare “ecco, questo è il cuore”.