Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 04 Del 25 - 5 - 2007 |
Colori, ombre e silenzi |
Accenni su Francesca Bonci, Teatro delle Apparizioni e Teatropersona |
Gian Maria Tosatti - Graziano Graziani |
Nel Cantiere Teatrale e nel Foyer del Palladium, i due spazi più ingrati della fiera si svolgono le performance della giornata di giovedì. La prima è lo Studio in rosso di Francesca Bonci, l’altro il Giocattolo coi fili del Teatro delle Apparizioni. Entrambi lavori in cui la luce svolge un ruolo centrale e in cui, è comune la ricerca di una freddezza straniante nell’uso del bianco e del suo scontornare le sagome. Aperto da un quadro decisamente accattivante e da una combinazione tra suono e immagine che evoca un’amniosi ipnotica, il lavoro della Bonci, dichiara sin dall’inizio tutti gli elementi su cui giocherà. Prima fra tutti è la scelta di una drammaturgia che evolve per combinazioni tricromatiche basate sul rosso, il bianco e il nero, i tre colori scelti da Hitler proprio per la loro forza attrattiva sullo sguardo. Ed infatti si resta spesso affascinati da come il corpo appaia e scompaia, cambi forma e dinamismi restando sospeso nel bilanciamento delle tre dominanti pure. Il bianco, gelido, quasi metallico del corpo ricorda le prime lightbox di un giovane artista romano, Gabriele Giugni – stessa dedizione a replicare sempre una geometria lineare nello spazio, stessa tricromia, stessa freddezza metallica quasi mortuaria del corpo nudo. Centrale nella costruzione dell’opera è anche il modo in cui la luce scivola sulle superfici, sulla pelle e sui tessuti. Complice forse la “bruttezza” del Cantiere Teatrale, la performance perde, però, forza nei momenti in cui si apre allo spazio totale, uscendo dai perimetri sintetici in cui il movimento è più piccolo e concentrato. E con una oscillazione regolare di densità procede la Bonci fino alla fine, dimostrando di mancare ancora della chiave ritmica in grado di tenere teso il filo del lavoro. Dello spettacolo di Teatropersona abbiamo deciso di non scrivere. Visto che la compagnia è rimasta infastidita dei «click» della nostra macchina fotografica abbiamo pensato che avrebbe gradito anche il silenzio. Comunque uscire dal loro spettacolo serioso e dal forte impianto pittorico, dove pure il teatro di figura ha la sua parte, ed imbattersi nell’istallazione del Teatro delle Apparizioni fa un certo effetto. Le atmosfere cambiano, tutto diventa soft e rilassante. C’è un tappeto alla giapponese steso nel foyer del teatro Palladium. Da un lato c’è il teatrino dove «il piccolo giocattolo con i fili», ovvero un burattino di carta, aspetta di venire animato. Posizionato su una colonna nera, questo strano incrocio tra la scatola teatrale e una tv domestica – grazie alle retro-proiezioni sul fondale – sembra quasi una visione totemica. Ma l’atmosfera che lo circonda è piuttosto “zen”. Un’accompagnatrice (Stefania Frasca) invita il pubblico a sedersi, mentre un traghettatore (Simone Faloppa) inizia la sua danza da dietro lo schermo, ombra-burattino che dà il via alla performance. Sulle note di «heroes» di Bowie (ma nella splendida versione dei Quintorigo), prende i fili del piccolo giocattolo e, in ginocchio davanti a lui, parte la danza speculare del burattino di carta e di quello di carne. Intanto, due tecno-ninja targati Apple (Fabrizio Pallara e Simone Memè), agli angoli del tappeto, controllano i flussi sonori e visivi, mentre il traghettatore va a prendere gente dal pubblico per dare il via a nuove improvvisate danze. «L’omino di carta è in attesa che qualcuno lo svegli e lo faccia danzare. Quel qualcuno sei tu», si legge nella presentazione. Ancora una volta il Teatro delle Apparizioni invita il pubblico a interagire, a essere lui stesso protagonista, all’interno di una cornice raffinata e minimalista ma assolutamente pop, cifra ormai consolidata dei lavori della compagnia romana. Ma più che da raccontare o da vedere, questa piccola installazione va vissuta. Attraversata. Perché è un loop uguale ma sempre diverso, nel quale è bello imbattersi un po’ per caso, e magari restare a guardare giusto il tempo che si vuole. Un po’ come accadeva nei tendoni dei circhi dell’Ottocento, dove ci si poteva affacciare e restare affascinati dalla sfera di cristallo della maga o, come Aureliano Buendìa, dalla prima volta che si vede il ghiaccio. Nel ghiaccio in sé non c’è nulla di fantastico, nella sua prima manifestazione c’è un mondo di evocazioni. Così funziona anche questa piccola apparizione, che ha il sapore del cortocircuito tra il teatro e l’arte installativa. E che conferma come la ricerca dello stupore, della meraviglia, resti ancora la cifra più stringente di questa compagnia. |