Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 04 Del 25 - 5 - 2007 |
Cantiere. |
Uno, due, tre pezzi di un teatro che vuole essere felice |
Attilio Scarpellini |
“Non ho tempo per pensare – diceva Albert Camus – sono troppo occupato a cercare di essere felice”. Forse, nell’affrontare i tre studi presentati ieri al Cantiere teatrale, è bene tenere a mente questa frase, anche perché viene da uno scrittore che considerava il palcoscenico uno dei pochi luoghi al mondo in cui si fosse sentito davvero felice. Ma soprattutto perché, a dispetto della loro irredimibile distanza stilistica, ciascuno di questi frammenti sembrava animato da una sua idea, clamorosamente individuale, della felicità di fare teatro e di andare in scena. C’è, per cominciare, la felicità espressiva della Lingua salvata di Pienaimprovvisa, il progetto di Raimondo Brandi, Alessia Bernardi e Daniel Bacalov ispirato al libro omonimo di Elias Canetti: è dalle prime movenze degli attori sulla scena tagliata dai fili per stendere i panni, quando si viene immediatamente investiti dalle voci del multiverso linguistico che ha scandito la biografia di Canetti – lo spagnolo dei sefarditi, lo slavo, il greco confuso al turco, il solitario lamento armeno – che si capisce la necessità di uno spettacolo interamente basato sulla possibilità che il teatro azzeri la diversità delle lingue confondendole e risolvendole in un linguaggio gestuale, arcaico e iperespressivo come quello dell’infanzia. E poiché l’infanzia è una lingua prima dove le intenzioni precedono i significati (e la felicità espressiva, come pensava Camus, è più forte del pensiero) una recitazione estroversa, a tratti indiavolata, getta Raimondo Brandi e Alessia Berardi tra le braccia di una teatralità semplice ed animosa che celebra nel contempo se stessa e la propria nostalgia per un mondo polifonico che già nel Novecento di Canetti si andava approssimando alla catastrofe. Dove “semplice” definisce appena un rifiuto, quello per l’intellettualismo, ma non un limite: a guardarli mentre si inseguono in tondo sotto il loro cielo di fili, uno brandendo una scure l’altra fuggendo, i due attori bambini ricordano il mondo selvaggio evocato da Nekrosius nelle Stagioni di Donelaitis… Nel secondo mistero, quello di Babateatr si contempla invece un’altra felicità, quella del coraggio. Anche le tre interpreti di Perché ce l’ho tanto con…, lo studio di Hossein Taheri dedicato ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata, sono molto mobili, ma è una frenesia da topovalzer imprigionato in una danza che non si può fermare, è il movimento della storia che dalla radio invade la scena e travolge la vita con le sue criminali onde di piena. A raccontare in questo caso è la rapidità con cui la narrazione trapassa nell’interpretazione, l’informazione nel dramma, l’evocazione che si fa gesto, presente, fisicità dell’atto di violenza, come quando una donna che non riesce a darsi pace per la scomparsa dei suoi cari al Dubrovka rivive all’improvviso la tragedia del teatro di Mosca ma dalla parte delle donne in nero, delle “terroriste” cecene. In questo continuo e invisibile farsi e disfarsi della scena, dove tutto quel che serve è contenuto in tre grandi buste della spesa – le buste di Anna uccisa mentre ritornava a casa – passano urlando i grandi drammi della scena russa di questi anni sui quali la Politokvskaja ha scritto il suo appassionato romanzo libertario. Ed è già un gran merito, anche solo per frammenti, aver restituito uno sguardo a ciò che normalmente è guardato con scandalo e con reticenza (anche per non irritare il “nostro amico Putin”), ricordare il Dubrovka e Beslan a un mondo dove tutti parlano di tutto, ma mai nessuno parla della Cecenia come del laboratorio in cui si sperimentano le sue soluzioni più avanzate nella guerra mondiale al terrorismo. Terza ed ultima, arriva la felicità della passione. Scritto e interpretato da Laura Riccioli, Era il mio stesso sguardo è forse lo studio più compiuto tra quelli presentati al Cantiere giovedì: chiudere la sua parabola, guardare nel suo futuro di spettacolo sembra già più facile. Il vero problema, invece, è collocarlo, non come genere – siamo nel campo della narrazione – ma come operazione: bisognerebbe scrivere una storia degli alterni e intermittenti rapporti, non tanto tra il teatro e il sacro genericamente inteso, ma tra il teatro e la figura di Cristo. Magari per scoprire che, a differenza del cinema, la scena non può intrattenere un rapporto diretto con la ridondanza di questa icona, la deve mediare attraverso altri testimoni, come prima della Riccioli hanno fatto, per fare due nomi italiani, Giuliano Scabia (Visioni di Gesù con Afrodite) e Letizia Russo (Niente e nessuno) con due opere in cui era comunque questione di uno sguardo deviato, vuoi attraverso il mito, vuoi attraverso la posterità alla Croce. Dopo vari Vangeli apocrifi scritti secondo Giuda (Saramago), secondo Pilato (Eric- Emmanuel Schmitt), la Riccioli ha scritto un vangelo della passione femminile secondo Maria Maddalena, immergendola in una temperie musicale da settimana santa nel Sud Italia. Pur non essendo completamente nuova – ma siamo su un terreno in cui di nuovo c’è solo l’origine, il resto è comunque riscrittura e interpretazione – l’idea non perde nulla della sua suggestione. Il motivo è semplice: non sullo spirito, ma sul corpo di Cristo si sorregge l’intero edificio della cristianità, nella teologia, ma soprattutto nell’immaginario profondo della fede. Con la sua Maria di Magdala che davanti a un catino ricorda l’amore impossibile per lo straniero che amando tutti non poteva amare nessuno, la Riccioli colpisce il lato più friabile dell’edificio: l’intimità di quel corpo, il suo erotismo. Ma il bello che nel suo lamento da donna innamorata, destinato a richiudersi nel segreto di ogni amore, di ogni alcova, non cambia di una virgola la storia cristiana, ne esplora semplicemente una possibilità lasciata (colpevolmente) in ombra. Mi raccomando però, ora non fatelo sapere a Ratzinger… |