Anno 0 Numero 05 Del 27 - 5 - 2007
Le derive del sogno
Teatrificio Esse tra i surrealisti e Rem & Cap

Gian Maria Tosatti
 

Un pianoforte che rompe la rigidità di un buio teatrale, fatto di quinte ed artefatti scenici. Un vestito appeso ad indicare la sagoma di un uomo. Il tempo è quello scarico dei dopo e dei prima, quando si fanno le pulizie, si tolgono le vecchie tracce e si prepara per l’arrivo di nuove ombre. Qui in questo tempo tra parentesi si avverte il segno profondo che Rem & Cap hanno lasciato in Teatrificio Esse, un gruppo di giovani artisti che è diretta emanazione dei loro percorsi di formazione fatti negli anni passati con mezzi di fortuna. Il gruppo di Armando Sanna, Davide Savignano e Pasquale Scalzi, accompagnati per l’occasione dal pianista-attore Aldo Gentileschi, dimostra, tuttavia, in questo spettacolo intitolato Mani, una reale indipendenza dal percorso dei padri, permettendosi, tuttavia di citarli, senza rifiutare di restare nel solco di una ricerca che è prima ancora umana che stilistica.

Un uomo delle pulizie allora, e quel frac nero che una volta indossato lascia la sospensione di un cappello e diventa passaggio verso le zone fuori parentesi, verso la possibilità provare a toccare, anche se con timidezza, il pianoforte. Le mani di un fantomatico direttore d’orchestra spuntano allora dall’oscurità che campeggia sullo strumento in una specie di teatrino dei burattini, impugnando una piuma rossa al posto della bacchetta. Poi altre mani depongono sul piano un metronomo e sveglie sempre più grandi, che figliano trenini di orologi più piccoli portando l’uomo verso una ipnotica ispirazione guidata dallo scandire di un tempo che si muove liberamente in avanti e a ritroso. E’ in questa forma romantica che si presenta il ritmo al nostro pianista d’occasione, che ora guidato dalle mani suona fluentemente le note che accompagnano le immagini visualizzate in oggetti dei suoi pensieri. Le mani iniziano ad intrecciare azioni sulla sua testa in un teatro di figura molto ben costruito. Due mani guantate di bianco colgono una luna appuntata nel cielo e portandola a terra ne fanno il volto di un uomo. Ed è forse solo il primo dei riferimenti manifesti al cinema sperimentale surrealista che procede per associazioni libere e, ancora, in genere, al cinema degli anni ’20 e ’30, verso cui c’è un debito anche musicale. E prima ancora, a richiamare l’impianto cinematografico, è proprio quel pianoforte sotto il boccascena di un teatrino che è doppiamente riferimento a certi teatri di marionette ma anche, appunto, al cinema di prima del sonoro, in cui interessante non era ancora la storia, ma proprio queste immagini di vita in movimento, che qui sono raccontate quando le mani si passano cesoie, chiavi inglesi, spatole e martelli.

Sul filo delle note il pensiero del protagonista segue un filo logico abbastanza libero (che a dir la verità, forse si allunga un po’ troppo) per poi ricondursi ai grandi flussi umani e a sintonizzarsi sulle onde che influenzano l’abituale processo di civilizzazione delle società. Quegli stessi processi, pieni di luci ed ombre cominciano a ripetersi nelle immagini prodotte dai questo mondo manomorfico, finché uno zoom arriva a far comparire una testa umana, sempre più sopraffatta dalla ferocia delle mani. Qui qualcosa si rompe, il pianista decide di smettere, di interrompere quest’ennesimo ciclo di prevaricazioni, facendo svanire tutto il castello delle immagini. Ma un carillon suona ancora, è la musica che questo moto del sogno si porta dentro ed è con esso che il pianista torna a duettare e a riprendere ancora una volta dall’inizio il suo discorso rituale. Da capo, da principio, in tutta la crudeltà degli ancora, dei ricomincio.