Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 05 Del 27 - 5 - 2007 |
La scatola degli addii. |
Teatropersona tra Beckett e Carrol. |
Gian Maria Tosatti |
Nel numero scorso non ci eravamo occupati di Teatropersona per via di un malinteso. Dopo aver chiarito l’equivoco, decidiamo di ospitare, anche se con ritardo, una critica del loro spettacolo, su questo numero. Una scatola, sì, attraverso cui si entra per una porta che richiama più Carrol che Beckett. L’interno è cupo, una specie di magazzino esposto alle intemperie dell’inquietudine, in cui a terra c’è la strada polverosa di Aspettando Godot e sparsi gli infiniti feticci usati dal grande burattinaio della drammaturgia contemporanea. Qualcuno entra. Un uomo che non somiglia a Beckett. I suoi tratti, i suoi movimenti non hanno niente a che vedere con l’immagine che si ha di lui, ma forse tracciano i contorni di un altro feticcio, l’uomo dentro l’uomo, il volto interiore. C’è un clima di arida confidenza, un clima da soffitta amata-odiata, dove finisce tutto quello che non riusciamo a smaltire, di cui non riusciamo a liberarci. E’ la soffitta di Dorian Gray, in cui nascondiamo le dodicimila maschere che, per dirla con Büchner, una volta strappate si portano via anche la faccia. Ed è forse per questo che una volta entrato, il guardiano di questo universo dal perimetro soffocante ha fretta di far sparire tutto, di nascondere la polvere sotto il tappeto, far sparire gli oggetti dietro una tenda nera, che a sua volta richiama le ombre magiche del teatro. Solo due aiutanti restano con lui, fedeli, gli unici vivi. Sono appunto Vladimiro ed Estragone, ma spogliati dall’iperbole drammatica dei loro personaggi come due attori fuori dal palcoscenico. Uno dei due è magro, calvo, l’altra è una ragazza dalla bellezza ruvida. I loro sono forse i volti familiari sui quali Beckett si arrampicò per disegnarvi sopra le maschere dei due clown più famosi della storia. Con movimenti eleganti danzano seguendo le regole di uno spazio dalle infinite apparizioni e sparizioni, cullano il loro ospite e la sua stanchezza fino alla fine, fino a quando la porta non si chiude e l’uomo di un baule fa la sua bara. Questo, in sintesi, è Beckett box di Teatropersona, il gruppo diretto da Alessandro Serra, che con questo lavoro ha vinto il premio Beckett and Puppett. Fortissima è, infatti, la vocazione al teatro di figura, che in nello spettacolo si manifesta anche dal punto di vista drammaturgico, nella costruzione dei personaggi e delle traiettorie di scrittura scenica (anche se solo una piccola parte, forse anche la più poetica, è realizzata con vere marionette). Ma è appunto il fatto che si perda il confine tra burattino ed essere umano a rendere Beckett box una prova pregevole di reinvenzione del teatro di figura tradionale, di cui, tra l’altro, conserva la grande attenzione per l’impatto visivo. I quadri costruiti da Serra sono impeccabili, di grande potenza evocativa, ed ogni dettaglio è curato in modo certosino per dare sempre l’effetto di una matericità che tuttavia non perde la propria natura magica teatrale. Scandito lentamente il ritmo del lavoro conta sulle energie di tre attori all’altezza di un compito difficile, essere scheletri mille volte trasfigurabili, in bilico tra l’esistenza e l’oblio, tra la vita e la morte. E la freddezza di Gianni Bonavera, Valentina Salerno e Marco Vergati è qui necessaria per rendere veridico quel clima di a posteriori di tutto che si respira quando si spengono tutte le stelle. Sono comunque questi talenti che appartengono al percorso della compagnia, punti saldi su cui Serra può contare. Ma l’impostazione rigorosa forse paga un prezzo alla struttura drammaturgica che tiene ancora troppo introflesse le proprie traiettorie fino a farne un cerchio chiuso e intimamente ripetitivo. Il fatto è che non c’è mai, in tutto lo spettacolo un momento di apertura, una fuga dal sogno, che apra lo spazio al respiro del fuori e che metta in discussione le leggi di quella scatola. E’ proprio allora quel clima da “a posteriori di tutto” ad essere la trappola in cui il lavoro cade, perché in esso non vi precipitano le infinite ultime tentazioni che in un uomo possono mettere ancora tutto in gioco, negare tutto, fino all’ultimo respiro. |