Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Anno 0 Numero 06 Del 28 - 5 - 2007 |
Maturità |
Editoriale |
Gian Maria Tosatti |
Nel numero di chiusura del festival, dove si devono tirare tutti i fili del discorso e nominare i fatti con quel privilegio d’intuizione che compete il critico militante, possiamo affermare che Teatri di Vetro sia stato l’esame di maturità di questa generazione. Non è un passaggio epocale, ma è il momento in cui tutti i conti tornano. Una realtà multiforme come una classe si registra di fronte ad un arbitrio, segna le proprie impronte digitali una accanto all’altra, tutti costretti alla stessa prova. I ranghi si serrano forse per la prima volta dopo cinque anni e ci si fa una fotografia attendibile esposta agli occhi di tutti. Che cosa si ottiene all’esame di maturità? In primo luogo ogni candidato, a diciotto/diciannove anni, singolarmente, capisce se è uno che ce la può fare o se resta al palo. E poi tutti insieme ci si rende conto se tutta quella gente che avevi intorno lascerà un segno, sarà una delle classi di cui si continua a parlare per anni, che restano mitiche nei licei, oppure era solo un agglomerato di atomi che una volta liberati si disperderanno scaricandosi. Ogni tanto c’è un esame di maturità nel teatro, ogni tanto una classe si diploma, con alterne fortune. Nel distretto di Roma alcune classi hanno fatto parlare di sé per anni (come quella delle “cantine” degli anni Settanta) altre invece si sono registrate e sono sparite il giorno dopo. Eccoci qui, allora, coi verbali firmati di questa nuova maturità. Fuori dalla sala del consiglio gli “scolari” fanno già le loro considerazioni e hanno già capito quale sarà il proprio destino individuale e quale quello di generazione. Dentro, dove siedono i critici militanti, gli organizzatori, e dove ci sono un sacco di sedie vuote, si discute, si cerca di nominare il fenomeno. E quello che viene da dire è che questo teatro oggi è la nostra «meglio gioventù», quella che nel bene o nel male può farcela a rimanere nella memoria. E viene da pensare proprio al film di Giordana, quella generazione aveva qualcosa in più delle altre, era giovane nel momento giusto in cui si poteva provare a fare la rivoluzione. E poi, forse, non ce l’ha fatta. Ma la sua traccia è rimasta nel liceo Italia. Nel film di Giordana gli studenti vanno ancora a scuola con la giacchetta, hanno rispetto dei genitori e danno del lei ai professori. Nei film contemporanei, girati coi telefonini, il liceo Italia è parecchio scaduto, gli studenti sfasciano a testate gli armadietti e toccano il culo alle professoresse, ma a parte quello il mondo sta ancora in piedi e gli esami si continuano a fare. Questa classe non ha quasi niente in comune con quella che si diplomava al liceo artistico dei tempi in cui Giordana ambienta il suo film, ma a suo modo è una classe straordinaria, che cerca di tenere salde le radici della propria identità e della grande tradizione del teatro, con dedizione e con delicatezza. Al banco di prova si è presentata con una varietà di intelligenze infinita, e tutti, proprio tutti, sapevano che non si stava scherzando. Il teatro di questa generazione ha dimostrato di essere all’altezza di fare il proprio ingresso in società e di provarne la scalata. Oggi, lunedì ventotto maggio duemilasette, il giorno dopo la licenza, si comincia a fare sul serio. Ma chi sono i teatranti di questa generazione? Per dirlo è necessario premettere che il distretto romano del nostro grande liceo “analogo” è una succursale povera, su cui nessuno ha messo gli occhi, disertata da tutti, senza amicizie né padrini. Quella di Teatri di Vetro è una classe senza raccomandazioni, senza giustificazioni, senza pompaggi. Uno per uno i maturandi si sono arrangiati, hanno fatto il proprio lavoro dentro i centri sociali, in mezzo al casino, in condizioni precarie, senza nessuno che gli desse retta, senza nessuno che li crescesse come vacche da allevamento. Per fortuna i grandi vecchi del teatro, quelli che negli anni passati si sono inventati le generazioni, sono diventati troppo vecchi, e i loro tirapiedi senza l’impulso del padrone sono troppo miopi per accorgersi di avere dei talenti sotto gli occhi. Insomma, questa generazione ha avuto la fortuna di stare sul lastrico e di sfuggire agli sguardi e alle mani unte del teatro italiano, almeno fino all’esame di maturità, di restare “sana” per tutta l’adolescenza, quando si forma il carattere. E in mezzo alla strada, nelle sale diroccate degli spazi occupati, dove la cultura è politica ed è messa sullo stesso piano del pane, questa generazione ha imparato una umiltà d’altri tempi e ha capito che nell’arte non c’è democrazia, che nell’arte ha diritto di vivere solo la bellezza, il resto è silenzio. E così ha messo in cantina i bei discorsi, le ideologie, le giustificazioni retoriche e si è rimessa a imparare il mestiere. Le compagnie di oggi parlano poco, ai convegni di questa fiera hanno biascicato poche parole, tutte molto pratiche, non parlano di politica, di diritti, di riforme, di spiritualismi. Parlano di pratica a rischio di sembrare un po’ più ottusi, avendo capito che il teatro si fa in sala e appunto il resto è silenzio. Sono giovani, è vero, giovanissimi, a dispetto dell’età anagrafica. Qualcuno ha inizato tardi, qualcuno, come accade nelle famiglie povere non ha avuto un corso di studi regolare. Fatto sta che il teatro lo sanno fare. In sala hanno mostrato il fiore della giovinezza e quello del mestiere come diceva Zeami. I lavori presentati a Teatri di Vetro se fossero stati inanellati all’Eliseo, al Teatro di Roma o al Valle, avrebbero costituito forse la migliore stagione di questi anni. Questo è il segnale vero. Dopodiché qualcosa ancora c’è da dire. In primo luogo non stanca ripetere che a Teatri di Vetro non si è fatto vedere un solo critico italiano (a parte i ragazzi di Altre Velocità, che sono anche loro maturandi di questa generazione – ma di un’altra sezione). In secondo luogo non stanca ripetere che a Teatri di Vetro non si è fatto vedere un solo operatore italiano o straniero del teatro che conta. Insomma, tutto è accaduto al teatro Palladium, ma nessuno lo ha visto. La terzultima parola la si spenderà invece per gli spettatori, che ci sono stati sempre, in tutte le occasioni del festival. Inoltre le performance nei lotti della Garbatella ci hanno insegnato che il pubblico non è solo quello che entra nel teatro, ma è fatto di persone che in sala non si vedono mai, e che pure stanno per tre ore ipnotizzate davanti ad un gruppo di danzatori che trasformano il cortile del loro palazzo in un’opera d’arte. Questo serva di lezione agli operatori (che non c’erano) per immaginare nuove forme di interazione. A loro dedico la penultima parola, a quelli che si sono lamentati di non avere una lira perché nei propri teatri non ci va nessuno. A Giancarlo Nanni, che durante uno dei convegni, ha risposto alle mie domande come un professore risponde al protagonista del film di Giordana, dicendo: «ma mio caro, noi siamo i dinosauri che dovete abbattere». A lui che ha avuto il coraggio di mostrare la faccia serva la lezione di questo festival che ha dimostrato come l’elasticità oggi è tutto perché tutto è cambiato e che il suo teatro sarà sempre più vuoto se non saprà capire il presente o non sarà in grado di fare un passo indietro e lasciare il suo posto a chi oggi vede più lontano di lui. E l’ultima parola la devo spendere per la mia redazione di cui sono orgoglioso, perché ha compreso l’importanza del ruolo di cui quasi inintenzionalmente è stata investita. I soli critici presenti a Teatri di Vetro significava essere l’unico specchio offerto agli artisti e ciò richiedeva il massimo sforzo di obiettività e professionalità. I miei colleghi sono stati all’altezza del loro compito dando ragione alla mia ferma volontà sin dal primo giorno in cui mi è stato chiesto di dirigere questo osservatorio, di volere loro e solo loro come compagni per questa avventura. Qui li ringrazio. Di questa rivista non so cosa sarà in futuro, ma il privilegio di aver lavorato con Attilio, Graziano e Mariateresa, due anni dopo aver deciso di chiudere con questo lavoro, mi ha fatto pensare che se questo fosse il giornalismo, allora vorrei essere ancora un giornalista. |